Come cavalli all’abbeveratoio

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di Giovanni Fioravanti

“C’è chi insegna/ guidando gli altri come cavalli/ passo per passo”.
Sono i versi con cui si apre la poesia di Danilo Dolci: Ciascuno cresce solo se sognato.
Mi sono ritrovato spesso a riflettere sul loro significato e ho incontrato un analogo riferimento negli scritti di Helen Parkhurst, quando osserva che insegnare è la stessa cosa che portare un cavallo all’abbeveratoio, non si può costringere il discente ad apprendere più di quanto lo stalliere possa costringere il cavallo a bere.
Ecco, la nostra scuola non sogna i suoi ragazzi e le sue ragazze, ma li conduce all’abbeveratoio del sapere. Non si pone dal punto di vista di ciascuno di loro, non si interroga sulla complessità della vita umana, sul futuro di quel ragazzo o di quella ragazza, sul suo destino di donna e di uomo, della sorpresa che potranno essere una volta cresciuti. Chi oserebbe pretendere che si possano educare i ragazzi senza conoscerli, scriveva Roger Dottrens.
Non so se coloro che sostengono la centralità della cattedra e dell’ora di lezione si siano mai posti dal punto di vista dei giovani che hanno di fronte, delle potenzialità che nascondono e riservano.

Lo studente come oggetto del loro lavoro, come terminale della loro voce.
Se si siano qualche volta posti il problema di pretendere di avere una parte veramente eccessiva nell’attività mentale degli alunni. Se accade che la mente di un insegnante sia sfiorata dall’idea che quella ragazza o quel ragazzo che gli stanno di fronte, di cui se mai disapprova le qualità, possa essere allo stato latente, la crisalide d’una donna o di un uomo che oltrepassa di molto le sue capacità mentali.

Ora, il cambiamento del punto di vista, diremmo meglio, del paradigma, sarebbe quello di considerare lo studente, la studentessa che ci stanno innanzi non tanto il terminale del nostro lavoro ma il protagonista del nostro lavoro, con la capacità di decentrarsi da noi a loro, non già per interpretarli o immaginarli, ma per accettarli per come sono e renderli i primi attori della sceneggiatura che ogni giorno prende corpo nell’aula, classe o laboratorio che sia.
Tutti conosciamo insegnanti che ogni mattina al momento dell’ingresso in aula si spogliano della loro personalità come fosse un soprabito, pur di non manifestare il loro aspetto umano a contatto con gli studenti, timorosi di perdere la loro autorità.

In realtà una scuola laboratorio vivo di conoscenza non sa cosa farsene di simili esibizioni di autorità fittizie. Autorità tutt’altro che educative, che anziché favorire l’ordine generano indisciplina, come è ampiamente dimostrato, e sono fatali al concetto di scuola come luogo sociale, come laboratorio di cultura.

L’acquisizione della cultura è una forma di esperienza, e come tale costituisce un elemento fondamentale della vita di cui la scuola dovrebbe interessarsi da vicino, ma ciò non accadrà mai fino a tanto che la scuola non sia riorganizzata in maniera che essa possa funzionare come una comunità, comunità la cui condizione essenziale è la libertà dell’individuo di svilupparsi. Una comunità di temerari del sapere come scriverebbe Nietzsche.
Ciò è possibile se la scuola è il luogo che fornisce i mezzi per convogliare le proprie energie per perseguire e organizzare lo studio in modo personale, a modo proprio, si potrebbe dire. Se accorda quell’autonomia mentale e morale che noi riteniamo indispensabile per la consapevolezza di sé e il senso di responsabilità nei confronti degli altri.
Per questo l’accento, più che sulle materie di studio, va posto sull’importanza che lo studente viva e si senta vivo, mentre è preso dal suo lavoro, e sul modo in cui agisce come membro della società.
Questo richiede che le materie di studio non siano proposte come ripartizioni a sé stanti, ma in connessione tra loro Storia, Ambiente, Scienza, Letteratura e Arte possono rendere il sapere un organismo vivo e fruttuoso, anziché un monotono e sterile processo.
È più facile apprendere contemporaneamente due materie legate reciprocamente da un vivo rapporto, che apprendere una materia presentata come cosa a sé stante, priva di qualsiasi rapporto con ogni altra cosa. Questa è la condizione per formare menti aperte anziché conformiste e ripetitive, se non addirittura pigre che si cullano nella convinzione di possedere il sapere, quando il sapere che possiedono è misero, parziale e spesso sterile.

Non ci siamo ancora resi conto che insegnare è la stessa cosa che portare un cavallo all’abbeveratoio come ci suggeriscono Danilo Dolci e Helen Parkhurst.
Purtroppo il nostro meccanismo scolastico è stato scrupolosamente congegnato non dal punto di vista dell’alunno, ma dell’insegnante e dell’insegnamento, come del resto ogni sistema che pretenda di essere educativo è pensato dal punto di vista dell’educatore anziché dell’educando.
Fino a quando non prenderemo a mano il nostro meccanismo scolastico per riorganizzarlo profondamente, affrancando le energie degli alunni dalla schiavitù dell’orario, delle materie e della classe essi non potranno mai fare esperienza delle loro autonomia e del fascino di percorrere le strade delle conoscenza come esperienza estrinsecamente legata alla loro vita.
Nel nostro sistema l’insegnante è ancora il primo attore della commedia, ad ogni cambio d’ora fa la sua entrata in scena.
Attore che, forse inconsciamente, è preso dallo sforzo di imporre la sua parte, il suo personaggio e le sue battute al pubblico discente, potremmo dire la sua personalità e le sue idee agli studenti.
Invertire le parti, significherebbe dare valore alla personalità dello studente, affidando all’insegnante il compito di tenere la regia degli apprendimenti senza interrompere la magia del flusso che accompagna ogni impegno cognitivo, come ci ha spiegato Mihály Csíkszentmihályi con la sua Flow theory.
Il vero compito della scuola, ci suggerisce il costruttivismo, non è né di incantare né incatenare l’alunno a idee preconcette, ma consentirgli di scoprire se stesso, i propri pensieri, le proprie potenzialità, di aiutarlo ad uscire dalla crisalide per meravigliarci.