di Marco Guastavigna
Non credevo alle mie orecchie quando ho avuto notizia di questa consegna di lavoro, assegnata in una prima classe di secondaria di primo grado: “Scrivi un testo descrittivo sul tuo quaderno e poi ricopialo con Google documenti”.
Eppure era proprio così!
Ora, al di là del fatto che il correttore ortografico del dispositivo segnala “ricopialo” come ortograficamente errato, questo approccio è indicativo di una delle molte catastrofi culturali verificatesi sotto l’egida dell’innovazione digitale.
Già, perché il tutto è rubricato come “informatica”.
Questa dicitura richiama, a chi ha vissuto tutte le diverse retoriche innovative – dall’ingresso trionfale nelle aule dei Commodore 64 al respingimento degli smartphone – una visione assai diffusa negli anni ‘80: l’informatica (intesa come epopea della programmazione) era infatti considerata il nuovo latino (ovvero le si assegnava valenza sintattica e logica universale) e quindi era necessario studiare e diffondere il Basic e, soprattutto, il Logo, che aveva la referenza di linguaggio nato in ambito psico-pedagogico.
Per altro, la progenitura di ciò che adesso rappresentano Schratch e il pensiero computazionale fallì miseramente e fu sostituita dall’idea di imparare ad usare i “tools” nati per il lavoro d’ufficio, ma pregevoli per la loro plastica impiegabilità nel processo di scrittura, nel calcolo semi-automatizzato, nella presentazione di contenuti multimediali e così via.
Purtroppo, questo non comportò affatto che si smettesse di chiamare le aule teatro di queste attività “laboratori di informatica”, Del resto, è questa l’etichetta tuttora superficialmente affibbiata anche agli attuali corsi rivolti agli anziani, desiderosi in genere di uscire dall’incubo Spid, di capire un po’ meglio come funziona internet e di mettere in comunicazione il proprio smartphone con il laptop di famiglia per meglio organizzare e vedere le fotografie scattate da tutti i suoi componenti.
Torniamo però al compito assegnato a ragazzini contemporanei: la prima assurdità della consegna è far assurgere la meccanica trascrizione su supporto digitale di un testo progettato, steso e corretto su quello cartaceo, con tutti i vincoli che ne conseguono, a ordinamento, trattamento e trasmissione di informazione mediante elaborazione elettronica.
La seconda è davvero paradossale: una tecnologia nata per facilitare il rapporto con la produzione di un testo proprio perché ne permette la realizzazione per perfezionamenti successivi diventa un totem a cui ci si può accostare solo dopo aver mondato la propria offerta votiva da ogni impurità. Si esperisce e si apprende insomma esattamente il contrario di ciò che potrebbe generare autonomia operativa ed emancipazione cognitiva, con effetti inclusivi, stante una maggiore affrontabilità della complessità dello scrivere.
Tutto questo è sostituito dall’uso pretestuale della scrittura di un proprio testo come motivo per entrare in un’arena addestrativa, quella della trascrizione.
Oltre che di una profonda e forse irrimediabile ignoranza professionale di cui abbiamo già parlato, questa micro-vicenda è esemplificativa del fatto che molti insegnanti non hanno probabilmente alcuna esperienza di uso significativo dei dispositivi digitali e si limitano perciò a proposte operative il cui unico scopo è dare un ri-verniciata di modernità ad attività inerziali.