di Monica Barisone
STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE
Non è facile far parlare i ragazzi delle loro paure, non lo fanno spontaneamente, ma a ben guardarli, a volte si coglie come una sorta di pallore, di smarrimento e allora, la fantasia che, sottotraccia, ci sia un lieve senso di paura diffusa, si coagula nella mia mente. Se provo a chiedere, formulando una domanda diretta sull’attuale periodo storico, allora decidono di aprire il vaso di Pandora, ed ecco che l’indicibile comincia a scorrere fuori come una lava incandescente e, attorno, rischia di rimanere solo la cenere.
C’è chi mi racconta di sentirsi messo in difficoltà dal boom mediatico rispetto ad alcuni eventi di cronaca, di vergognarsi di essere uomo. Chi denuncia quanto il contesto mondiale sia ansiogeno, disarmante, e muova soprattutto sentimenti di impotenza. Chi sostiene che sia meglio prendere un cane per difendersi che pensare di generare un figlio in un mondo senza speranza. C’è chi non si fa domande per la paura di rintracciare le risposte. I temi più ricorrenti sono il cambiamento climatico, i conflitti, la violenza agita e parlata.
Ho visto recentemente un video su un social che cerca di raccontare a fumetti quello che ci sta succedendo, violenza, finzione e correzione dell’immagine estetica di sé e del potenziale partner, diffusione di immagini private e lesione della privacy che possono portare al suicidio. Tutti assistono col cellulare in mano, riprendono o fotografano e cadono in un tombino che non vedono. Solo un ragazzino osserva ad occhio nudo e piange.
L’esperienza del lock down, da pandemia Covid, ha depauperato le competenze sociali soprattutto dei giovani adolescenti ed ora i ragazzi annaspano. Sarebbe stata utile un’abbuffata di eventi sociali per pareggiare i conti ma l’ansia di riallinearci su programmi, attività curriculari e no, doveri d’ogni sorta, ha soffocato ogni buona intenzione.
Qualche tempo fa l’ennesimo suicidio di una giovane ha sfiorato le nostre coscienze. Una ragazza, che la conosceva, mi ha raccontato con semplicità che lei, nella sua testa, voleva solo far cambiare le cose, che parlare con lei significava trovarsi a pensare a cose che non conosceva, come il diritto di voto, e sentirla dire che c’era tanta, troppa cattiveria sui social.
Anche tra ragazzi, allora, si comincia a parlarne e qualcuno mi dice che ‘i social non fanno bene, non sono buoni.’ Usano un linguaggio impreciso, generico ma primario, quello che si usa per fare chiarezza dentro di sé, per distinguere tra ‘mi fa stare bene’ e ‘mi fa stare male’, tra giusto e sbagliato, buono e cattivo, sano e malato. 0ra forse cominciano a sollevare di nuovo lo sguardo…dal cellulare alla vita circostante ma ciò che vedono li smarrisce ancora di più.
A chiedere ancora scopri che le emozioni che non sanno gestire sono soprattutto la tristezza e la rabbia; quindi, meglio non riflettere troppo e farsi troppe domande perché poi non saprebbero come contenere il furore, il dolore, la mancanza di senso di questo periodo di vita. Hanno la vaga idea che per conquistare la calma ci vorrebbe del tempo, luoghi sicuri e magari persone fidate con cui confidarsi. Tutti fattori piuttosto dispersi in questo momento. Il tempo è ormai prosciugato da post, like, foto, podcast, correzioni di immagini e voyeurismo. L’unico luogo sicuro sembra essere rimasto, nell’immaginario collettivo, il proprio letto. Gli adulti, poi, sembrano quasi tutti in balia di una resa incondizionata al peggio.
Se chiedo ancora, i ragazzi mi dicono che nelle scuole non si pensa a progetti sul disagio mentale, sulla perdita di motivazione allo studio ed al lavoro, né sulle neurodivergenze, ma piuttosto sulla raccolta differenziata, o tuttalpiù sul bullismo.
In questo panorama di frantumazione delle sicurezze e dunque dell’io, trovare leve di vita, spunti di speranza, ancore di salvezza o appigli per non scivolare nel baratro, diventa davvero complesso.
Gli sprazzi di luce che ho trovato sono davvero anomalie, di nicchia, forse persino un po’ naif o fantasy.
C’è la sfida del superamento della nostra visione antropocentrica del mondo per imparare dalle piante nuove linee guida per abitare il pianeta nel rispetto di tutti gli esseri viventi. In libri come La Nazione delle Piante o La tribù degli Alberi, Stefano Mancuso[1] affronta il tema della superiorità delle piante rispetto all’uomo in modo innovativo e provocatorio. Porta alle nostre orecchie la voce del bosco ‘Perché anche le piante hanno una personalità, delle passioni, ciascuna ha un proprio carattere. Cercano sottoterra per guardare il cielo. Si studiano, si somigliano, si aiutano’. Potrebbero aiutarci, se solo le osservassimo con un pochino di attenzione.
C’è ‘Un mondo a parte’ di Riccardo Milani, un bel film che piace nella sua semplicità e purezza, a sostegno di una buona causa. Persone comuni (quasi tutti) come attori, ritagli di natura (animale, vegetale e umana) da incanto, un buon stare nella necessità che porta lo spettatore a restare in piedi a leggere i titoli di coda, a decidere di tornare a breve a rivedere il film, a restare in quel ‘buon stare’ così opposto al ‘male di vivere’ che opprime un po’ tutti.
C’è la forza di una ragazza, di soli quindici anni, che ha appena ricevuto una diagnosi di sindrome bipolare, dopo due anni di incomprensioni e cure sbagliate, che mi dice, dopo aver versato poche calde lacrime, ‘Cerco di prenderla con ironia e penso che ora con le cure giuste starò meglio’.
[1] Neurobiologo e studioso di neurobiologia vegetale