Revisione delle Indicazioni nazionali. Il partito dei programmi

   Invia l'articolo in formato PDF   
image_pdfimage_print

di Nicola Puttilli

Sul wikidizionario alla voce partito si legge: “raggruppamento politico di cittadini che professano idee comuni per la gestione dello stato e delle amministrazioni pubbliche”. Il ministro Valditara esibisce orgogliosamente sul bavero della giacca il distintivo della Lega, lo stesso partito che nell’Italia centrale presenta capolista alle elezioni europee il generale Vannacci, quello che vuole le classi separate per i disabili, considera anormali gli omosessuali e da ultimo anche le persone con i capelli rossi. Il ministro si è limitato a dichiarare che “nessuno ha fatto più della Lega per l’integrazione dei disabili” (ipse dixit) ma non ha ritenuto di dissociarsi apertamente da simili deliranti affermazioni, né risulta abbia manifestato difficoltà o imbarazzo nel farsi rappresentare in Europa da tale personaggio. Del resto lo dice anche il dizionario pop “cittadini che professano idee comuni”.

All’ombra di questo ameno paesaggio culturale il ministro in questione annuncia la nomina di una commissione incaricata di formulare proposte per la revisione delle Indicazioni nazionali e  delle Linee guida per tutti i cicli scolastici.
Sembra che sia quasi un dovere d’ufficio per ogni buon ministro dell’istruzione tentare, dopo qualche mese dal proprio insediamento, di lasciare un segno indelebile del proprio passaggio a viale Trastevere e riformare i programmi scolastici è una di quelle imprese che può assicurare un passaggio nella storia. Possono ben aspettare i controsoffitti che crollano, gli stipendi degli insegnanti e gli abbandoni precoci, la revisione dei programmi viene prima. Per fortuna ben pochi ci riescono.

I programmi scolastici invece arrivano dopo. Dopo un ampio e diffuso consolidamento culturale derivante da una visione comune di società e della  sua proiezione futura, da un’idea di scuola sufficientemente assimilata e condivisa, con una scansione temporale di lungo periodo, più o meno trentennale (a parte tentativi parziali di riforma che hanno avuto breve durata e scarso impatto sulla scuola reale).
Così è stato per i programmi della scuola elementare del ’55, quelli del bambino tutto “sentimento e fantasia”, specchio fedele dell’Italia da poco uscita dalla guerra e presto collocata sotto l’ala protettrice della democrazia cristiana e dell’alleanza atlantica. Per contro i programmi della scuola media del ’79, della scuola elementare dell’ 85 (il bambino della ragione) e della scuola dell’infanzia del ’91 rappresentano nel loro insieme la rivoluzione culturale e pedagogica che ha percorso gli anni ’60 e ’70, sotto la spinta della pedagogia attiva e del cognitivismo. Le Indicazioni nazionali del 2012, oltre a recepire nuovi fenomeni sociali planetari  presto diventati categorie concettuali come la complessità e la globalizzazione, sono la logica conseguenza dell’autonomia scolastica che decreta l’obsolescenza dei programmi rigidi e uguali per tutti in favore di curricoli ispirati sì a linee di indirizzo nazionali, ma in grado di valorizzare al massimo le risorse e le progettualità dei singoli territori e delle singole scuole.
Sul piano culturale e valoriale complessivo le Indicazioni del 2012 si pongono in linea di continuità con i programmi precedenti, aggiornandone semmai l’impianto concettuale e gli approcci metodologici.

A questo punto una domanda, come si diceva un tempo, sorge spontanea: in poco più di un decennio dalle ultime Indicazioni nazionali sono cambiate in modo così significativo la percezione e le chiavi di lettura della realtà sociale e culturale che ci circonda, comunque tale da giustificare una complessiva revisione dei programmi scolastici? Certamente l’avvento del governo di destra nel nostro Paese ha enfatizzato alcune scelte valoriali a scapito di altre date a lungo per acquisite: la valorizzazione esasperata dell’identità nazionale in contrapposizione al principio di multiculturalità e di accoglienza, l’idea di merito inteso come dato originale e del tutto personale disgiunto dai condizionamenti socioeconomici di provenienza, lo stesso concetto di inclusione che, come abbiamo visto, rischia derive prima impensabili.

Quasi una scelta di campo appare, in tale contesto, anche la recente decisione del governo italiano di votare contro la mozione UE sui diritti LGBT,  schierandosi al fianco delle repubbliche dell’ex impero sovietico, contro le tradizionali democrazie occidentali d’Europa.

Anche sulla scuola spira un’aria forte di restaurazione, le difficoltà poste dalla scolarizzazione di massa e dalla scelta di accoglienza e di piena inclusione non hanno trovato risposta in riforme e investimenti adeguati, inducendo in parte della cittadinanza e dell’opinione pubblica la ricerca di facili soluzioni rivolte al passato: rafforzata enfasi sul principio di autorità, reintroduzione del voto numerico nella primaria con buona pace della valutazione formativa, validità del voto di condotta per l’ammissione all’esame, pressioni sull’autonomia scolastica come nel caso della scuola di Pioltello, ecc.
Si tratta senza dubbio di segnali importanti e da non sottovalutare, rimane tuttavia la sensazione di passaggi troppo accelerati, frutto più di successive forzature imposte dal potere politico che non di reali processi di cambiamento, che in ambito sociale e scolastico richiedono tempi non brevi per essere accettati e metabolizzati. La stessa frenesia delle innovazioni, decise unilateralmente, senza troppi confronti e mediazioni, suggerisce la volontà di voler procedere troppo  velocemente, quasi a voler recuperare in fretta e a qualunque costo, una minorità a lungo subita, soprattutto sul terreno della cultura e della comunicazione.

E’ vero che la società attuale produce innovazioni a ritmi sempre più accelerati e che dal 2012, anno delle ultime Indicazioni nazionali, si sono evidenziati nuovi fenomeni di rilevanza planetaria come la transizione ecologica, l’intelligenza artificiale generativa, l’aumento delle disuguaglianze, il ritorno della guerra, anche in terre a noi vicine, come strumento di risoluzione dei conflitti, di cui la scuola non può non tenere conto. E’ pur altrettanto vero che dovrebbe essenzialmente trattarsi, in questo caso, di un aggiornamento con prevalente riferimento ai contenuti delle discipline, mentre la nomina di soli pedagogisti nell’ambito della commissione, lascia presagire la volontà di voler intervenire sulla premessa e quindi sul sistema valoriale e sull’impianto complessivo delle stesse Indicazioni. Una trasformazione incompatibile con lo stato attuale della nostra scuola e della nostra società, l’ennesimo strappo che rischia questa volta, in considerazione della assoluta rilevanza del tema, di essere particolarmente dannoso e pericoloso.