Fame di vita vera

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STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone 

La vitalità, attitudine a vivere in modo autonomo, serve ad affrontare con grinta difficoltà e imprevisti nella quotidianità, e consente di gustare appieno scoperte, sorprese, conoscenze. Ma cosa l’attiva? Quali trigger la innescano? Ho visto, piuttosto accidentalmente, un video in cui un medico asiatico rianimava un neonato…

Quasi ipnotizzata, ho osservato lui e la sua equipe compiere atti rapidissimi, senza fermarsi un attimo, sinché il bimbo non ha cominciato a reagire tossendo ed ha iniziato finalmente a piangere. La vita è esplosa in lui quasi come per incanto, una specie di on/off, prima non c’era e poi d’improvviso è stato, era vivo.

In un viaggio caotico in treno verso il mare ho visto due giovani, pieni di desiderio, arrotolati l’uno nell’altro, baciarsi avidamente: la vita pulsava di passione.
Quella stessa energia vitale sembrava animasse una piantagione di granturco verdissimo sotto il sole di mezzogiorno. Ma era vita vera, ci avrei giurato, anche quella nei piedi di due anziani per mano, con l’acqua di mare alle caviglie, alla luce della luna, dolcissimi, freschi come teenagers.

L’ho avvertita anche nelle foto inviatemi da una giovane paziente: mi rendicontava una piccola vacanza costruita nelle avversità della separazione, conflittuale, dei genitori. Mi descriveva angoli lacustri rintracciati con tenacia nei pressi dell’abitazione di una zia e mi ricordava con ardore d’essere in partenza per una vacanza studio in Scozia, impresa per cui aveva combattuto con i denti sino allo stremo delle forze. Che spettacolo!
Vitalità, energia, cercala dove ti pare. Ma cercala. Non smettere mai di cercarla. Il nostro cervello ne ha bisogno per portare il corpo là dove vuole andare, per realizzare i sogni di ogni giorno, per amare, creare, imparare, costruire. Anche questo nessuno ce lo insegna. Forse un tempo non era così necessario ma ora sembra davvero utile, quasi indispensabile, sapere dove e come recuperare vitalità, energia psichica.

È suggestiva, in questo senso, la proposta di Kawaguci (2022) con ‘Il primo caffè della giornata’: “Dentro ciascuno di noi esiste la capacità di superare ogni genere di difficoltà. Ognuno possiede quell’energia. Ma a volte, quando questa energia sfugge attraverso la valvola dell’ansia, il flusso si restringe. Più grande è l’ansia, più forza serve per aprire la valvola che libera energia. Questa forza è potenziata dalla speranza. Anzi, si potrebbe dire che la speranza è il potere di credere nel futuro”.

Un primo trigger allora potrebbe essere un evento gradito o favorevole che si realizza, un’aspettativa, un’aspirazione, un sogno che si avvera. Come la vacanza insperata della giovane Giada, la piccola gioia procurata dalla percezione dell’acqua alle caviglie dei due anziani, ma anche la promozione inaspettata di Giorgio, ragazzo con disturbi specifici di apprendimento, ammesso all’esame di maturità con riserva, che esplode nelle prove, esprimendo al massimo le sue potenzialità, perché un docente gli esterna tutta la fiducia che ha in lui! I trigger, dunque, non sono solo casuali, ma possono essere creati intenzionalmente.

In una ricchissima mostra dedicata ai progetti svolti dai ragazzi durante l’anno, c’era una sezione dedicata ad un’attività incentrata sul benessere e sulle emozioni. I ragazzi avevano realizzato dei podcast direi su una decina di emozioni anche se una sola era positiva, la gioia. Ci avevano lavorato insieme, non era stato facile ed ora era lì a portata di orecchio per chiunque avesse la pazienza e curiosità di sedersi un attimo ed ascoltare, assorto, essere travolto e cominciare a sorridere, a sperare che i nostri ragazzi ce la potranno fare, dopo l’estate e forse anche più in là.

Un altro modo sperimentato di trasformare l’ansia in energia positiva è quello di prendere di petto i problemi e affrontarli in modo radicale e deciso. Se agisci il prima possibile, accelerando i tempi, riduci le possibilità di ripensamento, eviti quel continuo ruminare di pensieri che è alla base di eccessive preoccupazioni.
In diverse occasioni mi sono trovata nella stanzetta dedicata allo sportello d’ascolto o nel mio studio ad aiutare i ragazzi nell’organizzazione dello studio per superare l’angoscia di non farcela. Ogni volta sorpresa dal fatto che non sapessero che potesse aiutarli contare le pagine da studiare, dividerle per il numero di giorni che precedevano la verifica, o non avessero mai riflettuto su quale fosse il momento del giorno più favorevole allo studio, o come utilizzare i motori di ricerca, che loro subiscono, passivamente, ogni giorno, per recuperare, invece, attivamente, riassunti, sintesi, film, lezioni brevi…insomma tutto ciò che esiste sulla rete per poter arrivare più preparati alle interrogazioni nel minor tempo possibile, padroneggiando davvero gli argomenti di studio. E, durante quei venti o quaranta minuti di colloquio ho potuto vedere tante volte le loro guance riprendere colore, distendersi i lineamenti… tornare a vivere, per poi reincontrarli sorridenti nei corridoi o alla seduta successiva soddisfatti dei propri risultati o miglioramenti.
Come dice spesso provocatoriamente Matteo Lancini, psicoterapeuta che si occupa da tempo di adolescenza, forse non bisognerebbe proibire l’uso dei cellulari ai ragazzi ma insegnar loro veramente ad usarli per affrontare il futuro.

Nell’ultimo corso di educazione all’affettività, quest’anno, la proiezione nel futuro dei ragazzini di quinta, espressa attraverso il disegno, riguardava soprattutto e per la prima volta, il tempo libero anziché, come negli anni passati, tanti anni passati, la realizzazione lavorativa o familiare e relazionale. Questa è l’eredità lasciata dal lock down, la scoperta del tempo per sé stessi.
Durante i colloqui con i ragazzi che stentavano a riprendere lo studio o non riuscivano ad entrare o restare a scuola, dopo la fine della didattica a distanza, ricorreva il loro spiegarmi che avevano bisogno di tempo per le loro cose da fare, le loro passioni, spesso on line, come vedere video, ascoltare musica, leggere libri (ma non quelli indicati dai docenti), oppure stare con gli amici, uscire, stare fuori casa, costruire e rompere legami, piangere per le persone perse.

“È come se le persone,” come denuncia con chiarezza Natalia Aspesi (La Repubblica 4 agosto 2023) “in mezzo a una guerra, alla paura dell’atomica, alla fine della Terra, al futuro pauroso, sentissero il bisogno di verità” di vita vera, di un sapere scelto autonomamente o piuttosto, addirittura “di un dolore umano e comprensibile, di una disperazione vera.”
Queste preziose considerazioni sembrano collimare con quanto emerso in un progetto sulla dispersione scolastica[1] nel torinese.

Erano stati condotti incontri di gruppo con composizione eterogenea per cercare di lavorare alla costruzione di una comunità scolastica permanente e i ragazzi avevano vissuto esperienze guidate di apprendimento tramite competenze trasversali (danza, sport, arte, cultura).
Durante gli incontri i ragazzi avevano, cioè, sperimentato attività non competitive in sport e danza, attività sull’identità personale e sulla dispersione, avevano riflettuto sulla propria percezione di scuola, lavoro e futuro. Durante il follow up sono emerse alcune interessanti opportunità di apprendimento derivate dalle attività: saper lavorare insieme e confrontarsi grazie all’interazione con persone di età diversa dalla propria, essere più motivati grazie ad attività pratiche e nuove, imparare (facendo, più che scrivendo o ascoltando) a comportarsi, ad ascoltare e conoscere gli altri, a capire ‘com’è la vita’.
Stare con i compagni di età diverse aveva permesso loro di confrontarsi su percezioni diverse, di capire come affrontare l’ansia del futuro ascoltato i più grandi, più navigati. Si era verificato un passaggio di consegne rispetto alla gestione della scuola che i grandi avrebbero lasciato a breve, c’era stata una trasmissione di esperienze nel fronteggiamento dello stress dei docenti, ma anche la costruzione del sogno di una scuola migliore, più green, più attiva e laboratoriale, meno orientata alla prestazione e più al benessere collettivo. Una curiosità? Alla domanda se fosse utile la presenza dello psicologo nella scuola, in mezzo al grande assenso, un’affermazione condivisa: ne hanno bisogno persino i docenti perché sono sempre troppo stressati!

[1] Star bene a scuola per costruire il futuro. Un progetto di educazione comunitaria per contrastare la dispersione scolastica. Due incontri esperienziali tra arte, cultura, psicologia, sport e danza per approfondire i senso dello star bene a scuola e…nel mondo. IC Settimo II.