di Raffaele Iosa
In questi giorni di calda estate 2023, su facebook da diversi autori è riesplosa (dopo anni di silenzio) la questione delle cd. “cattedre miste”, inerenti una diversa organizzazione più cooperativa tra docenti di sostegno e curricolari. Lo scopo, nelle intenzioni pedagogiche migliori, è di arricchire l’esperienza formativa dell’alunno con disabilità riducendo i rischi di una troppo frequente “didattica separativa” spesso racchiusa in rapporti para-privati con il docente di sostegno ed eventuale educatore fino alla diffusa forma della “copertura totale”.
Il termine dice già tutto sul rischio che l’inclusione diventi una strana isolazione.
La discussione è per ora varia, tra chi esprime entusiasmo perché si riaprano azioni di migliore comunità professionale, soprattutto nelle scuole medie e superiori, a chi ne vede le difficoltà applicative, a chi (come sempre accade) sostiene che il problema è “un altro”.
Personalmente delle cattedre miste ne penso un gran bene: la pluralità dei docenti è un valore se si fa cooperazione e integrazione per tutti i ragazzi. Per quelli con una qualche disabilità possono essere una manna cognitiva, un’esperienza di maggiore socialità, un sentirsi comunità che apprende. Molto meglio la cattedra mista che la cattedra di sostegno tout court, che tende inevitabilmente all’isolazione .
In questo mio commento non entro negli aspetti tecnici e organizzativi né giuridici di come si possano sviluppare forme più ricche di corresponsabilità e organizzazione curricolare flessibile. Vi sono da tempo (fin dal Regolamento autonomia del 1999) ampie possibilità operative di flessibilità, come ostacoli o freni dati da aspetti organizzativi, contrattuali, di abitudini. Vi sono anche, naturalmente, riserve radicali su cosa sia il “sostegno”: se un’attività didattica diffusa che tocca tutti (come insegna la Legge 517 del 1977!!) o non invece una “professione specialistica para-terapeutica” di per sé “altra” dall’educativo.
Vorrei invece qui inserire il tema cattedre miste in un quadro più ricco di questioni sul “contesto socio-pedagogico” complesso e deludente della scuola italiana nei suoi processi di inclusione a vasto spettro, da quella degli studenti con disabilità, alle diverse forme di cd. “BES” sino alla più vasta questione della dispersione scolastica. Questo perché la questione “cattedre miste” non va vista come una questione tecnica in sé, ma uno dei tanti aspetti da curare per superare la crisi di senso ed efficacia della scuola, per la quale da tempo (nei testi giuridici come in quelli contrattuali) si fa riferimento fino all’adulazione al termine “comunità educante” per accentuare la corresponsabilità e la partecipazione di tutti. Il termine comunità rischia di restare però una retorica grida manzoniana, che può voler dire varie cose come il suo contrario. Ebbene: la questione cattedre miste è di per sé un tipico oggetto da comunità educante nel suo farsi concreto. Se la scuola nel suo insieme sarà capace di leggersi e costruirsi come comunità professionale aperta e solidale, con il sano ma anche ottimistico realismo delle cose possibili.
Tre questioni d’insieme , l’intreccio del rischio de-scolarizzazione
Dunque vorrei qui collegare, in breve, la questione cattedre miste con tre grandi snodi del presente sui quali ho in questi anni scritto molto, per vedere la questione cattedre nel quadro di una scuola che va messa in movimento qualitativo per evitare possibili fallimenti fino alla de-scolarizzazione di fatto. Cioè scuole sempre più inutili e meno leve di sviluppo di tutta la società, e il destino di tutti i nostri giovani.
1. L’esplosione iatrogena
Il numero di certificazioni di disabilità è raddoppiato in meno di 20 anni, aumentano di queste la condizione di gravità (il famoso art. 3 comma 3 della Legge 104/92). Non c’è è nel nostro paese un dibattito scientifico e sociale sulle ragioni di questo strano evento di grande complessità. Le più diverse testi cercano spiegazioni a volte fantasiose. Non c’è comunque alcun dubbio che è cambiata la percezione di “difficoltà” e “malattia” sia nelle famiglie che nel mondo educativo sia in quello sanitario. Forse non è un caso che l’aumento delle certificazioni sia inversamente proporzionale al calo demografico: meno bambini che si desiderano troppo “perfetti”?. E’ comunque un tema sul quale l’assenza di ricerca e dibattito scientifico rischia di creare nelle scuole grandi incertezze e confusioni.
Ha accompagnato l’esplosione iatrogena della disabilità l’invenzione clinica dei DSA, giunti in poco più di un decennio quasi allo stesso numero dei compagni di classe 104. E anche in questo caso con una discussione spesso estremizzata da tesi opposte sulla bontà o meno di queste sindromi.
E, infine, dal 2013 la dizione BES come contenitore di diverse condizioni esistenziali, cognitive, sociali cui offrire un trattamento educativo di cura. Non facile da comprendere se BES così diventi uno strumento di aiuto o invece (come temo) uno stigma che nel tempo separa, rassegna e riduce le attese educative.
Dunque, in meno di 20 anni è mutato profondamente il panorama interpretativo e gestionale di tutti i nostri studenti con una qualche difficoltà comunque diagnosticata. Da qui norme, indicazioni, e spesso dolorose forme conflittuali tra scuole e famiglie. Da qui la nascita di “nuovi servizi” (spesso privati) con proposte “riabilitative” quasi chiavi i in mano. Siamo alla centralità del sintomo che sostituisce la persona.
Il nuovo cospicuo blocco di normative sulla disabilità, ad esempio, ha prodotto un monstrum giuridico, tra GLO di cui non è chiara la funzione e il reale potere, un ICF diventato un contatore di ore di sostegno piuttosto che un lettore olistico della persona, e infine il progetto di vita diventato cosa da servizi sociali comunali piuttosto che il quadro di riferimento di sviluppo di ogni persona.
C’è dunque molto da fare, studiare e discutere sulla qualità attuale dell’inclusione nelle nostre scuole. C’è il rischio che l’inclusione si separi dai processi di normalità del processo educativo, che si tenda cioè a forme “speciali” di scolarizzazione, cioè nel tempo a nuove forme di scuole speciali. Non solo per gli studenti con disabilità. E dunque, come non vedere la questione cattedre miste come un antidoto interessante da sviluppare per cambiare la tendenza alla separazione e all’isolazione?
2. La dispersione scolastica, disavventura italiana
Come non bastasse, i dati sugli esiti scolastici dei nostri studenti sono infelici, e le differenze regionali tra nord e sud gridano vendetta ad una società più equa e dinamica. L’Italia ha la più elevata percentuale di NEEDS in Europa. E la povertà è tema conflittuale del dibattito politico con t4ensioni e disparità tra zone del paese intollerabili. Comunque il tema dispersione avrebbe molti interventi, riceve numerosi finanziamenti di cui il recente PNRR ha il massimo sviluppo. Eppure anche questo tema rischia di diventare questione separata dalla scuola nel suo insieme. Si può comprendere, ad esempio, la necessità di professioni più elettivamente capaci di aiuto, ma c’è anche alto il rischio di nuovi “tutor-interventi speciali” o l’utilizzo esagerato del terzo settore come salvatori e delegati, capaci però di produrre loro malgrado (paradossalmente) forme “isolanti” piuttosto che “comunità educanti” in cui tutti, docenti studenti e famiglie, si fanno comunità reale, bella nella sua eterogeneità . Soprattutto non delegando ad altri “esperti” i problemi, e continuando la gran massa a vivere con la propria spicciola “normalità”.
3. Verso il deserto demografico
Quest’anno nasceranno meno di 380.000 bambini. Il calo demografico è ormai clamoroso. Sappiamo già che nei prossimi 10 anni dovremo fare i conti con lo sviluppo territoriale dei singoli istituti, dalle scuole dell’infanzia alle superiori, con il rischio di conflitti per visioni localistiche senza una visione realistica della condizione infantile e della crescita. Penso si debba avere il coraggio di un ripensamento collettivo della geografia scolastica che unisca il numero degli alunni con il territorio nel suo insieme (es. servizi sociali, opportunità, relazioni tra servizi). Meno bambini avremo in un territorio più si dovrà stare attenti ad offrire più opportunità integrate possibili perché il calo demografico non diventi un deserto, in cui bambini soli crescerebbero con poche opportunità intorno a sè. Anche in questo caso, quindi, serve una visione da comunità educativa, in questo caso con la responsabilità di tutti, dagli enti locali alla società civile, all’economia del territorio. Sarà dura. Ma altrettanto sarà realistico comprendere che avere pochi bambini rende necessario perderne il meno possibile. Da qui i tre punti di questo breve testo si sommano nel dovere di una visione integrata e unitaria che abbia a cuore la comunità civica nel suo insieme.
Per queste ragioni io penso che tutte le azioni in cui si costruiscono nei territorio forme di comunità attiva saranno sempre più necessarie, e perfino convenienti. Non solo per i nostri giovani, ma per un patto tra le diverse età della vita che nel prossimo futuro sarà più complesso che ai tempi dell’alta natalità.
Lo scambio tra generazioni sarà più delicatamente complicato, sarà necessario evitare “sprechi” umani e sociali, sarà quindi indispensabile e perfino conveniente fare il più possibile comunità.
Ecco perché, partendo da un aspetto particolare dell’inclusione scolastica qual è la “cattedra mista” , si comprende come ogni più piccolo gesto di partecipazione, corresponsabilità, creatività sarà utili al nostro non lontano futuro.