Merito e Meritocrazia sono due nomi che, in questi giorni, fanno discutere, da qualunque parte li si voglia considerare. Poiché il Merito è diventato il nuovo logo del Ministero dell’Istruzione e del Merito credo che, almeno in questa fase, sia meglio attenersi al mondo della scuola, visto che analogo trattamento non hanno ricevuto, ad esempio, i ministeri della Funzione Pubblica, dell’Università e delle Ricerca, degli Interni, ecc.
Se ci fermiamo dunque al Ministero dell’Istruzione e del Merito sono quattro le categorie interessate alla questione:
- gli studenti
- i docenti
- i dirigenti
- il personale ATA
LA PERICOLOSA CHINA DEL MERITO COME CONTRALTARE DEL DE-MERITO
Cominciamo dagli studenti che, a tutt’oggi, nel mondo della scuola sono gli unici ad essere valutati in maniere, comunque, troppo disomogenee e molto poco eque. Va immediatamente sgomberato il campo da un possibile equivoco e cioè che tutto ciò che non è de-merito, per sua stessa natura sia merito. Per dirla in modo molto semplificato: se prendo 5 de-merito, se prendo 6 merito: questo è un modo proprio perverso di ragionare. La docimologia italiana è la base strutturale della sua dispersione, perché scambia misurazioni sommarie ed arbitrarie con i processi di valutazione. Bisogna, quindi, sgomberare il campo – immediatamente – dal de-merito, categoria legata a situazioni sociali, personali, culturali, motivazionali che si vanno ad intrecciare spesso con didattiche frontali ed obsolete, ossessione per compiti in classe e interrogazioni, interesse per i risultati dei prodotti e non per quelli dei processi. Il merito deve, dunque, essere qualcosa che dimostra particolari capacità degli studenti che devono essere premiate nell’ambito di un’azione meritocratica, che parte cioè dagli oggettivi risultati di coloro che riescono a sollevarsi dalla media. Dunque, il merito dovrebbe essere la ricerca degli elementi di eccellenza in un sistema che deve, contemporaneamente, avere attenzione ai bisogni di inclusione, supporto, accompagnamento, azioni dirette sulle persone.
Se si volesse percorrere la strada della valorizzazione del merito una buona lettura è quelle costituzionale: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.” Questa dicitura intende tutelare un principio di equità non di concorrenza, mettendo tutti i “bravi e meritevoli” sullo stesso piano, sia che abbiano i mezzi, sia che non li abbiano. A prima (ma anche a seconda) vista sembra che l’idea insita nella Costituzione non sia molto simile a quella che ha ispirato il cambio di nome ministeriale. Il merito, comunque, si può premiare e individuare ma, per farlo, è necessario slegarlo totalmente dal de-merito, altrimenti si passa da una tendenza equa, ad una tendenza selettiva e iniqua. Quindi si deve partire dall’idea che i voti, in sé, non possono essere merito, ma soprattutto non possono discriminare il merito in rapporto al de-merito. Se non si sta molto attenti, in questo frangente, si rischia di trasformare tutto in un’unica notte dove tutte le mucche sono nere.
L’azione sul merito inteso come elemento di valore e qualità alta o altissima dovrebbe produrre due provvedimenti che però scardinerebbero il sistema scolastico italiano:
- L’eliminazione del valore legale del titolo di studio
- L’eliminazione delle bocciature
Il valore legale del titolo di studio pareggia tutto: i diplomi e le lauree presi in Istituti e Università di grande valore e quelli presi per via telematica; i percorsi di eccellenza e quelli mediocri, le lauree di chi le ottiene al primo appello utile e quelle di chi si trascina per vent’anni all’università. Non credo sia necessario enumerare tutti gli elementi che hanno prodotto la grande distorsione italiana per cui il “pezzo di carta” fa aggio su qualunque competenza sia stata acquisita per raggiungere quel “pezzo di carta”: sia quella di alto valore e livello, sia quella strappata anche attraverso tutte le varie patologie del sistema (due anni un uno, istituti che usano metodologie valutative non comparabili, e via di seguito). Se i diplomi e le lauree non avessero valore legale, in primo luogo, si abolirebbero gli esami di stato, che forniscono classifiche tanto inutili quanto deleterie, su prove di tipo contenutistico spesso proposte per soddisfare le aspettative dei valutatori e non dei valutati.
Il secondo passaggio dovrebbe essere quello dell’abolizione della bocciatura, con la conseguenza di rendere necessaria una valutazione e una certificazione che descrivano attentamente tutti i percorsi in modo che si possano conoscere le reali competenze acquisite dagli studenti. Così si avrebbero, ad esempio, studenti che escono dai licei con il 100 e lode e studenti che escono con il 25, cioè con un semplice attestato di frequenza. Tutto questo collegato agli accessi universitari aperti solo a chi – in determinate materie – ha un voto alto. Per cui, ad esempio, se esco da un liceo scientifico con 4 in matematica non posso iscrivermi a ingegneria, dove ci vuole, poniamo, l’8. A quel punto pur provvisto di diploma devo andare a prendermi l’8 (al liceo o all’università), altrimenti a quella facoltà non posso accedere. Non credo sia questo il luogo per dettagliare, ma se voglio fare lettere classiche all’università devo proprio avere da 8 a 10 in latino e greco. Questo permetterebbe un’azione personalizzata sui percorsi, con studenti che decidono di perseguire il livello alto in tutte le discipline e studenti che si specializzano in rapporto all’università e al mondo del lavoro. A questo punto diventerebbe fondamentale e interessante sapere da che scuola o università viene uno studente, che percorso ha seguito, dove è di alto o medio livello e dove di basso livello. E gli unici “bocciati” sarebbero quelli che a scuola non ci vanno proprio e quindi diventano soggetti su cui si dovrebbe agire in primo luogo per via sociale.
Non credo sia molto complicato comprendere che questo sistema rivoluzionerebbe tutta la scuola italiana e – soprattutto – renderebbe evidenti, pubbliche e verificabili le valutazioni e le certificazioni delle scuole. Il voto perderebbe il suo valore e diventerebbe soltanto la descrizione di un livello di competenza, come già avviene per i livelli linguistici (anche se questi livelli a scuola assurdamente convivono con i voti). E anche gli studenti che escono dal sistema con una bassa votazione potrebbero vedersi valorizzate alcune competenze. In questo modo la ricerca del Merito inciderebbe sul profilo dello studente e non sul suo tempo di permanenza a scuola.
Io credo non si possa continuare a dare in premio agli studenti migliori lo “scalpo” (leggi bocciatura) di quelli deboli e in difficoltà, perché non si ha altro da dargli. Sono due profili di studenti diversi e devono essere trattati in modo diverso. Lo Stato dovrebbe prevedere posti di lavoro immediati per gli studenti di alto livello, con percorsi certificati da scuole-università-organismi indipendenti. Insomma, lo Stato dovrebbe saper individuare i migliori, non lasciare indietro nessuno differenziando le didattiche a tutti i livelli, premiare i capaci e meritevoli senza metterli in raffronto con chi ha problemi ad essere capace e meritevole.
QUIS CUSTODIET IPSOS CUSTODES?
La questione dei docenti, invece, la si potrebbe chiudersi già dal titolo: poiché in Italia i valutatori destano sempre sospetti, nessun metodo di valutazione cancellerebbe i dubbi sui valutatori e quindi tutto sarebbe destinato al fallimento (come è successo a tutti quelli che ci hanno provato da Berlinguer a Renzi). Anche in questo caso si potrebbe fare un tentativo separando il de-merito dal merito. Non tutti gli insegnanti che vengono a scuola tutti i giorni sono meritevoli: qualcuno oltre a venire a scuola fa ottenere ai suoi studenti ottimi risultati, qualcun altro un po’ meno. Però come si verifica tutto questo? L’unica possibilità è che il merito sia un elemento certificato di eccellenza, non una semplice sequela di cose fatte premiate per il solo fatto di essere state fatte. Una base di partenza potrebbe essere questa: su base volontaria l’insegnante chiede di essere valutato e un soggetto esterno definisce il livello di partenza dei suoi studenti e lo stesso soggetto esterno (nucleo di valutazione) verifica a fine anno se c’è un valore aggiunto: se c’è, bene, si premia il merito, se non c’è non accade nulla e si è fatto quello che si è potuto. Questo metodo non produrrebbe insegnanti di diversa categoria, ma solo docenti desiderosi di verificare la propria capacità di lavorare sul valore aggiunto.
Sui dirigenti non merita – almeno qui – fare un lungo discorso, ma solo dire che va applicata la legge e vanno tutti valutati.
SEGRETERIE IN AFFANNO
Anche in questo caso si tratta di cancellare il concetto di de-merito e di occuparsi solo del merito, ma non attraverso astrusi meccanismi valutativi, bensì premiando economicamente le eccellenze delle segreterie. Anche in questo caso va ribaltato il concetto di intensificazione della prestazione che col merito non ha nulla a che vedere e va, invece, approfondito quello di competenza tecnica ,che va premiata sempre (gestione economica, graduatorie, progetti, piattaforme sono solo alcuni nomi dove è semplicissimo vedere l’assistente amministrativo di alto livello da quello di basso livello). E anche nel settore dei collaboratori scolastici per un dirigente scolastico è immediato verificare il dipendente che interpreta il suo ruolo in forma minuziosa da quello che fa quello che deve fare senza cercare di migliorare, anche perché poi comunque riceve un’intensificazione (anche se spesso molto piccola). Il problema è che, anche in questo caso, se tutto ciò che non è de-merito diventa merito allora invece di produrre efficienza ed efficacia nelle scuole si produce un sistema falso-egualitario dove tutti hanno teoricamente gli stessi carichi di lavoro, anche se non ne hanno – con un’evidenza molto semplice da verificare – le forze e le competenze per gestirli.
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