Prendiamo una grande squadra di calcio: ad esempio il Milan che ha vinto lo scudetto. Facciamo finta che, dopo il primo tempo, la squadra sia sotto di due gol per errori palesi della difesa. A quel punto l’allenatore pensa: “dato che i difensori hanno sbagliato devo mettere in difesa i più forti che ho” e così sposta due attaccanti (diciamo Giroud e Ibrahimovic) al centro della difesa. A occhio e croce dovrebbe finire sette a zero per gli avversari. Ognuno deve giocare nel suo ruolo: se sei attaccante attacchi, se sei difensore difendi.
Mi è venuto in mente questo piccolo paragone dell’assurdo pensando alle modalità con cui la cultura umanistica e le materie umanistiche affrontano la questione del digitale a scuola. Il digitale è una “tigre” e, come tutte le tigri, è molto indifferente alle sue vittime. Sta nella sua natura essere interessato a sé stesso, avendo una statura, un peso e una capacità aggressiva che difficilmente si possono mitigare. Davanti ad una tigre abbiamo grosso modo due strade: la prima è cercare di addomesticarla, di non farla arrabbiare, di non impaurirla; la seconda di cavalcarla. Poi qualcuno tenta la fuga, ma la tigre è più veloce e la fuga, di solito, non riesce. La cultura umanistica e le materie umanistiche non sembra intendano “addomesticare” o “addestrare” il digitale, ma lo hanno semplicemente cavalcato, quando era necessario, ed ora non sanno come scendere dalla tigre digitale, perché gli è venuta fame e in groppa ad una tigre non si mangia.
Il digitale è la nuova grande, inattesa e imprevista possibilità per la cultura umanistica, ma questa, invece di capirne le potenzialità, combatte il digitale dopo averlo utilizzato, per lo più per fare conferenze o lezioni frontali. La cultura umanistica italiana non sta facendo granché per capire le possibilità del digitale e si limita e produrre lunghi PDF, cioè libri di carta fotografati. Già questa questione del poter fotografare i libri è interessante, ma ancora più interessante è sapere in che modo agire con le biblioteche virtuali, ma anche con tutta la lingua scritta e pubblicata sul web, ogni giorno nuova, ogni giorno in aumento. Questo mio articolo ha una modesta possibilità di circolazione attraverso il digitale, quasi nessuna possibilità di circolazione tramite meccanismi cartacei. Fatto banale, ma evidente.
Non è mai accaduto nella storia dell’umanità che si leggesse e scrivesse tanto come oggi: si scrive e si legge dappertutto, sia dove lo si può fare (seduti su un treno, seduti su un aereo, seduti su una metropolitana, nella propria camera da letto, sul banco della scuola, in spiaggia), sia dove non lo si può fare (su un aereo quando lo si pilota, su un’auto quando la si guida, al lavoro quando si deve lavorare ecc,.), sia dove lo si può fare oggi ma non lo si poteva fare una volta (camminando, nuotando, ballando, mangiando, ecc.). Ogni giorno escono miliardi di pagine scritte da qualcuno e messe sul digitale. Dunque, la cultura umanistica dovrebbe vedere il digitale come il suo grande e possibile futuro (è comunque molto più facile mettere in rete una propria poesia piuttosto che una complessa formula matematica).
La risposta della scuola è, invece, preoccupante: dopo essersi messa mani e piedi in mano alle multinazionali e ai loro server, ora che tutto dovrebbe essere tornato normale (ma invece nulla è tornato normale) si sta accorgendo che scendere dalla tigre è un problema, ma è un problema anche restarci in groppa. Tentativi di addomesticamento non se ne vedono. Così la cultura umanistica ha pensato bene di prendere i suoi intellettuali (gli estrosi attaccanti da pochi o tanti gol, ma comunque gente che sta all’attacco) e metterli in difesa contro il digitale, i suoi guasti sulla scuola, sugli adolescenti, sul mondo. Il “ritorno alla carta”, però, avviene in un solo modo: attraverso l’adozione dei libri di testo, unico libro che entra in molte famiglie. I danni che “gli attaccanti” stanno facendo alla scuola e alla cultura umanistica sono enormi, ma nessuno pare accorgersene. Dovrebbero attaccare e convincere le persone a leggere e invece lanciano invettive contro il digitale e la sua invasività anticulturale.
E qui passiamo dalla cultura umanistica alle materie umanistiche: il digitale le contamina, le integra, le rende multi e interdisciplinari, soffre le divisioni nette. Per cui da un lato si fanno comprare alcuni chili di libri di carta e dall’altro si lascia che il web faccia scuola da solo. Come ha detto di recente il mio amico Roberto Maragliano: l’insegnante per sapere se uno studente sa o non sa deve interrogarlo, il digitale per saperlo basta che segua il modo in cui ognuno di noi (e ogni studente) lavora sul web (e – dopo averlo tracciato – valuta se ha capito o meno). L’insegnante del mattino insegna a espandere la lingua, quello del pomeriggio (lo smartphone) insegna a contrarre la lingua: quello del mattino si disinteressa di quello che fa quello del pomeriggio, quello del pomeriggio, invece, sa benissimo come combattere quello del mattino. Lo studente studia sui libri quando è obbligato, ma poi usa il web. Gli insegnanti fanno lo stesso, ma insegnano a fare altro.
Nelle scuole italiane ci sono migliaia di biblioteche che stanno facendo un immane lavoro di catalogazione per libri che pochi chiedono, pochi leggono, nessuno ruba. Chiedere, leggere e rubare non sono tre sinonimi, però al giorno d’oggi che motivo c’è per rubare un libro se non lo si vuole leggere? Io penso che se noi lasciassimo le biblioteche scolastiche aperte e sguarnite nessuno ruberebbe niente, primo perché i libri di seconda mano non li vuole nessuno, secondo perché se voglio leggere un libro me lo compro, terzo perché l’interesse a leggere i libri è diminuito. Quindi non c’è pericolo di furto e si potrebbero mettere i soldi della catalogazione in attività di sensibilizzazione alla lettura, coinvolgimento, lavoro sulla scrittura.
Invece la risposte della scuola alla crisi della cultura umanistica è una ulteriore parcellizzazione delle materie umanistiche e dei libri di testo di accompagnamento. Chi ama le materie umanistiche e la cultura umanistica dovrebbe fuggire dai libri di testo come si fugge dalle pandemie: bisogna far leggere libri “veri” non manuali, bisogna far conoscere il suono, la parola, la suggestione. Una delle cose che non ho mai compreso (tenete conto che ho fatto per vent’anni il professore di italiano, storia, geografia) è come possano appassionarsi alla Divina Commedia studenti costretti a seguire le spiegazioni di versi che, letti, nessuno capisce. E dico nessuno, senza controprova, perché ho sempre avuto il dubbio che molti insegnanti se non avessero le note o non avessero studiato il testo non saprebbero spiegare cosa Dante scriveva. Certi canti del Purgatorio e del Paradiso sono troppo complicati: che senso ha leggerli, non capire nulla ed ascoltare uno che te li spiega? La poesia è un’altra cosa e se qualcosa resta, deve restare perché ti è entrato dentro non perché qualcuno ti ha spiegato quanto è bello. Questo vale anche per le canzoni, vedi il Premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan.
Stessa cosa dicasi per I promessi sposi: vanno letti, non spiegati. Vanno letti e commentati, non riassunti. E così per Leopardi, Calvino, Moravia, Ariosto e per tutta la filosofia e la cultura sociologica e umanistica in genere. Invece la scuola procede per riassunti (i manuali), come se il riassunto ti spiegasse la metrica, mentre si limita a raccontarti la storia, anche se spesso – in Hemingway sempre – la storia è molto meno bella di come ci viene raccontata dallo scrittore.
Il digitale dovrebbe essere il grande alleato della cultura umanistica e delle materie umanistiche, che però vivono l’ossessione della copiatura. Il problema non è copiare, ma saper dire precisamente da dove lo si è fatto. Nei libri che ho pubblicato ho sempre citato la fonte da cui ho “copiato” alcuni passaggi che ho virgolettato. E ho sempre citato i libri a cui ho fatto riferimento: qualcuno ha mai letto un saggio in cui l’autore non citi (copi) qualche altro autore? San Tommaso d’Aquino quando faceva un Quodlibet all’Università di Parigi si inferociva se un suo studente esponeva una tesi e non sapeva chi fosse l’autore del passato che l’aveva elaborata. Riteneva il comportamento dello studente che pretendeva di aver inventato qualcosa un affronto a Dio, che aveva dotato di saggezza alcuni uomini perché ne tramandassero il suo messaggio. Lo studente doveva saper copiare, non doveva inventare. Se leggesse i temi dei nostri studenti scritti su carta (spesso attraverso il gesto “solo scolastico” di piegare un foglio a metà e scrivere solo a sinistra) San Tommaso inorridirebbe davanti a tanta arroganza di ragazzini che sdottorano su argomenti aulici senza alcuna autorità e senza alcuna competenza. Per imparare a scrivere bisogna scrivere (perché non digitalmente?) e bisogna leggere, non fare esercizi. Perché non far comprendere la centralità della citazione? Perché non abituare gli studenti a fare abstract e montaggi di testi citati chiaramente e commentati? Perché non lasciare che scrivano consultando il web, copiando dal web, citando dal web? Scrivere quello che si sente e si sa, leggere quello che di bello è stato scritto: il web in questo è un aiuto formidabile per la cultura umanistica.
Il libro di carta sta benissimo ma è un bene di nicchia: mettere i centravanti in difesa, cavalcare l’affamata tigre del digitale, far scrivere tutto su carta al mattino (e poi nel pomeriggio nessuno lo fa più) significa condannare la cultura umanistica a chiudersi nella riserva della scuola, lasciando che la cultura scientifica la faccia da padrona nella società. Le Facoltà umanistiche dovrebbero smetterla di inventare corsi strani per rubarsi studenti tra loro e aprire spazi per studenti che cercano una strada, la scrittura del web deve essere presidiata, non è più possibile lasciarla alla didattica dello smartphone.
Se un allenatore vista la mala parata mette ottimi attaccanti in difesa cavalca una tigre da cui non scende più. Se gli intellettuali per difendere la cultura umanistica dicono pubblicamente scempiaggini su una scuola che non conoscono il tasso di analfabetismo culturale e di ritorno che vogliono combattere semplicemente aumenterà. E d’altronde sono in arrivo 800 milioni sul digitale a scuola, ma la scuola tenderebbe a vietarlo quel digitale a scuola: non tenta di addomesticarlo, ma cerca ora di scendere dalla groppa della tigre. Però, giustamente, ha paura di farlo: le fauci del digitale, più o meno, le conosce e sa che non perdonano. Ma d’altronde, come ha scritto Eschilo, “Giove acceca chi vuole perdere”.