E’ il tempo che hai perduto per la tua rosa
che ha fatto la tua rosa così importante
Saint Exupery, il piccolo principe
Ho letto il messaggio di Dario Missaglia, presidente di Proteo, attorno a questa terribile fase di espansione del COVID e di come la scuola sembri aver perso il senso pedagogico del suo agire, travolta da aspre discussioni solo sulle incertezze sanitarie, il caos gestionale, le tifoserie tra “presenza” e “distanza”, e così via.
Condivido in pieno il suo messaggio per ri-mettere al centro del nostro impegno lo sguardo pedagogico, che rifletta su come stanno i nostri bambini e ragazzi e cosa servirebbe loro come priorità educativa in questa epoca così drammatica.
Già a settembre 2020 ho condiviso il suo Protocollo Pedagogico, rimasto per molti una vox clamans in deserto, che richiamava ad un diverso impegno per fronteggiare gli effetti psicologici, emotivi, cognitivi dati da una scuola diventata balbettante, semiaperta o più semichiusa. Raccoglievo commenti del tipo “belle parole, ma oggi il problema è un altro”. Un “altro” che si riduceva, poi, alle sedie a rotelle, o alla Dad come fosse il demonio, scordando che spesso la mitica “presenza” è, seguendo il canone della tradizione, noiosa aria fritta, distanza fino all’ estraneità.
Ma oggi la situazione educativa, a due anni dall’inizio della pandemia, è quanto mai peggiorata.
Dunque, è necessario il coraggio di riprendere e rilanciare un pensiero pedagogico.
Rispondo qui alla sua proposta superando d’un colpo le mie opinioni su quarantene, mascherine, Dad e così via. Mi soffermo invece sul cuore della scuola rimettendo al centro la voce pedagogica. Di questo qui scrivo, anche con alcune proposte operative.
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Pedagogia della cura
La relazione educativa è termine generico, registrata nelle norme scolastiche e nei contratti, ma rischia di essere una specie di insalatina di contorno alla recita del dio contenuto/disciplina, per molti il totem della scuola italiana. Si sente ancora dire: “a scuola si impara, non si impara a vivere; al vivere ci penserà mamma e babbo o i preti. Al massimo l’io docente spera di trasmettere le sue simpatie, cioè che l’alunno perfetto assomigli a lui/lei”. Ma non è così.
Proviamo invece ad approfondire in modo più rigoroso: l’evento “scuola” si realizza con una relazione sempre asimmetrica tra adulti e bambini/giovani che mette insieme certo i contenuti, ma vissuti come eventi irripetibili (di apprendimento e di vita) entro cui le dimensioni emotive, relazionali, affettive, di sensibilità e di identità si mescolano concretamente realizzando lo sviluppo di ogni persona. La stessa pura “trasmissione di contenuti” avviene come un evento didattico carico di senso non solo di esito, che determina o meno interesse, passione, curiosità. Ma c’è di più: la relazione educativa avviene nel tempo reale hic et nunc della vita di un bambino e di un adolescente, ne riflette quindi le vicende concrete del vivere in un dato momento storico. Questo attuale momento è, inutile negarlo, del tutto dolorosamente straordinario.
Infine, c’è una cosa più importante ancora che rende la relazione educativa centrale nel fare scuola: l’art. 3 comma 2 della Costituzione quando ci dice che “compito della Repubblica è di rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione della persona umana”.
La rimozione degli ostacoli in pedagogia si chiama “cura dell’altro come sé”. Cura non perché malato o poveretto, ma perché persona e cittadino. Cioè è quell’ “I CARE” che ci ha insegnato don Milano a Barbiana. Che vuol dire concretamente: ”Mi interessi, non ti mollo, faccio di tutto per te, cerco una soluzione se gli ostacoli ti creano guai”. E’ una scuola seria, non lassista!
Se questo è vero in generale, lo è ancora di più in questa terribile fase COVID nella quale i bambini e i ragazzi vivono oggi eventi inediti, di cui non abbiamo memoria comparativa, dentro una tempesta sociale, sanitaria, ed emotiva a fortissimo impatto individuale e collettivo. Si può insegnare una qualsiasi cosa senza tenerne conto? Anzi: come si fa ad apprendere se dentro di noi c’è la tempesta emotiva?
La relazione educativa dunque non è semplicemente confinata da quel generico modo di dire nel profilo del docente come “competenze psico-pedagogiche”, una tra le altre competenze, ma è elemento strutturale e trasversale del lavoro docente.
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La tempesta emotiva dei nostri bambini e ragazzi oggi, e i rischi iatrogeni
Le ricerche di cui scrive Dario sulle crisi emotive dei nostri bambini e ragazzi sono cospicue: c’è uno stato diffuso di smarrimento, di stress, di alterità, di incertezza, di solitudine, e soprattutto di incertezza sempre più forte sul domani, anche quello più vicino. Quando finirà questa tempesta?
Questo prolungarsi e della pandemia aumenta a dismisura le crisi già presenti nel primo anno.
La tempesta produce anche casi clinici drammatici. In questi mesi ho seguito e raccolto storie di suicidi e tentati suicidi, di autolesionismo, di isolamento fino al fenomeno kikomori, di anoressia o bulimia. Ma questi casi sono solo la punta di un iceberg molto più vasto sotto la superfice di diversi stati emotivi, spesso più semplici ma sempre più diffusi e ma comunque duri.
C’è oggi il rischio di pensare che ad ogni “sintomo di dolore” basti riferirsi al medico o allo psicologo, come se per le sofferenze non servisse la relazione educativa. Il che è paradossale: nel primo periodo del lockdown (primavera 2020) si imparò nei fatti che una Dad che volesse scimmiottare online la lezione tradizionale o la “normalità dell’aula” rischiava due fallimenti: apprendimenti incerti ma anche stati d’animo più tristi, ragazzi sperduti nella solitudine del video, cui non si chiedeva come stavano nei loro sentimenti, ma di rispondere alle domande curricolari. Perfino con la buona fede di pensare che se si “evitava” di trattare la condizione esasperata di confinamento questo poteva essere meno doloroso. Insomma una specie di finzione amnesica. Oggi questa contraddizione è più importante da considerare, visto il prolungamento di questa fase pandemica “straordinaria” (intesa come strana) con l’aumento della sofferenza.
Il rischio di una intensa medicalizzazione è elevata. La scuola con la relazione asimmetrica adulti/ ragazzi e quella tra pari sono invece “luoghi esistenziali” che alleviano con il “prendersi cura” (o sfasciano con la sua mancanza) i tanti e diversi dolori. Dobbiamo quindi considerare questi prossimi mesi, così ancora incerti e difficili, come un periodo in cui lo sguardo pedagogico della cura educativa sia la base del nostro agire, qualsiasi siano le condizioni di lavoro.
Rischiamo altrimenti una deriva iatrogena, cioè di etichettare oltre il lecito e il giusto le diverse storie dei nostri ragazzi, isolandoli nel cerchio della certificazione, della terapia, della “dispensa”, cioè all’assistenzialismo che produce dipendenza e abbassamento delle attese dell’io.
Penso spesso, per confronto, a come mia mamma e mio papà erano durante la guerra. Avevano tra i 10 e i 15 anni. La guerra è passata dura nelle loro vite. Se un qualche psicologo li avesse visitati a quei tempi avrebbe trovato molte patologie. Eppure il dopoguerra fu un miracolo: una generazione di bambini maltrattati dalle guerre vissero i tanto celebrati “favolosi 30 anni”.
Ci vuole dunque molta attenzione a non catastrofizzare eventi drammatici della vita. Se ne potrebbe uscire anche migliori ,con una maggiore capacità di resilienza davanti alle disavventure. E’ con questo sguardo che la nostra “cura educativa” deve saper trovare il giusto equilibrio tra comprendere e sollevare il dolore diffuso nello loro anime, ma anche quella di far leva nelle loro forze interiori, nei loro talenti e passioni, nel saper dare uno scopo al dopo e al dopodomani.
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L’io docente nella relazione ai tempi della pandemia
Quale comportamento docente è più opportuno, in questa fase complicata, per gestire una “cura” educativamente saggia?
Trovo giusto che gli insegnanti no-vax non insegnino e non solo per motivi sanitari. Il nostro paese ha scelto di adottare il principio costituzionale della priorità della salute come interesse pubblico (e quindi il vaccino). Da qui ripartiamo.
Ma ho riscontrato anche la presenza, umanamente comprensibile, di docenti che si trovano in una fase emotivamente fragile della loro vita. Aver paura non è una colpa.
Mi raccontano a volte di colleghi ansiosi, che emotivamente si isolano in una fisica e psicologica “distanza” relazionale. Penso che avremmo dovuto capire e aiutare questi colleghi.
Ma ora proviamo a precisare alcune caratteristiche di cura educativa che gli insegnanti dovrebbero, a mio avviso, avere in questa difficile fase. Ne segnalo quattro.
Empatia.
Che, come noto non è simpatia o antipatia. E’ sentire l’altro, fargli capire che lo sentiamo, con discrezione, senza invadenza esagerata. Si può anche chiamare scaffolding, con Bruner. Uno stile relazionale dove si sta dietro non davanti all’altro, che non si obbliga a parlare o fare, ma si incentiva ad agire, perché lui sa che se cade ci siamo noi dietro a tirarlo su. E’ per la verità un paradigma di tutta la didattica attivistica, utile sempre, ma in questo periodo necessaria.
Equilibrio
E opportuno avere uno stile relazionale sereno, sobrio, offrendo sicurezza, evitando eccessi sia di ansia che di superficialità. Non è un periodo facile per nessuno, ma il bambino e il ragazzo devono sentire che l’insegnante è un adulto. E solido.
Creatività e flessibilità
Le diverse e complicate situazioni di lavoro di questi mesi ci obbligano ad avere una maggiore flessibilità nell’organizzazione dell’attività scolastica. Potrebbe anche essere la volta buona di sperimentare didattiche innovative, e soprattutto evitare che le regole sanitarie impediscano o riducano forme di didattica attiva. Forse serve una riscoperta dell’attivismo, oggi più importante che mai perché può dare ai ragazzi una più felice pratica di partecipazione, piuttosto che essere passivi ascoltatori chiusi nella loro mascherina. Questa è la pedagogia della cura necessaria.
Adattamento
Questa è forse la dote più difficile da spiegare evitando equivoci. La vita a scuola è per forza di cosa diversa dal passato, e giorno per giorno possono cambiare molte cose. Significa per chi ci lavora trovare forme di adattamento positivo e flessibile secondo le diverse avversità. Un eccesso di rigidità e formalismo rende la scuola più dura per tutti, anche per chi insegna.
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Proposte per agire, stimoli per costruire il positivo
Ed ora, la parte che più mi interessa approfondire: cosa potremmo fare?
SI aprono sei mesi duri, con poche certezze. Potremmo avere situazioni varie in vari periodi, dal confinamento per positività, alla quarantena preventiva, al ricovero ospedaliero, sia per studenti che per insegnanti. Potremmo avere classi strappate a metà tra “presenza” e Dad.
Le ultime decisioni del Governo per la scuola prevedono di fatto un sistema differenziato perfino da classe a classe, cioè non più il precedente modello del lockdown generalizzato a tutti nello stesso periodo a prescindere dalla salute individuale. Questa è la novità essenziale da cui partire.
Inutile negarlo: una condizione molto difficile da gestire dal punto di vista didattico, che ha bisogno di due atteggiamenti professionali e organizzativi fuori dal canone classico dell’orario scolastico standard uguale per tutti:
– la flessibilità didattica, preparandosi a gestire diverse situazioni, periodi diversi tra loro, condizioni diverse tra gli stessi alunni. Proviamo a rovesciare il dramma in opportunità: potrebbe essere il momento di utilizzare forme di flessibilità inedite che possono perfino essere più gradite e efficaci del rito lineare tradizionale. Finalmente l’autonomia didattica prevista dal DPR 275/99 potrebbe diventare simpatica e certo utile, dopo vent’anni di amnesia e di boicottaggio. Servirebbe ai bambini e ragazzi fare una scuola sui loro tempi, non sul rito lineare settimanale.
– l’accomodamento ragionevole. Utilizzo qui un ben termine ripreso dalla Carta dei diritti della persona con disabilità dell’ONU del 2006, allargata a tutti i nostri bambini e ragazzi. Adattamento è la capacità di fare istruzione il meglio possibile nelle condizioni date, che ci obbligano a mettere al centro i ragazzi più che le discipline. Ce lo chiede la loro condizione esistenziale, che ha bisogno di opportunità di apprendere come lievito di curiosità, coinvolgimento, desiderio, passione.
Ragionevole è accettare che questo non è un periodo normale, che non si può ripetere il passato in forme ristrette,. ma che conviene puntare ai saperi e alle esperienze essenziali, non pretendendo quantità ossessive ma conoscenze e competenze fluide e interconnesse.
Partendo da queste due pre-condizioni, presenterò qui alcune proposte per una buona pedagogia della cura attraverso alcune idee-stimolo, esempi-tipo, senza pretesa di una summa, mettendo insieme una buona cura educativa e una buona ragionevole didattica.
Ovviamente sono schegge di azioni perché mi fido della fantasia e creatività degli insegnanti, se riacquistano l’autonomia didattica libera, pur troppo scippata in questi anni.
4.1 Il perdere tempo
I lettori più attenti si saranno chiesti perché ho posto all’inizio una frase del Piccolo Principe.
Si parla della sua relazione con una rosa cui ha dedicato molta cura e attenzione. Il valore sta in quel perdere tempo che, come si sa dalla storia, è stato tempo intenso. Nel perdere tempo sta la mia prima proposta di cura. Significa preoccuparsi meno del calendario e più del tempo di cura che si passa parlando, riflettendo, creando comunità di parola e di ascolto tra noi e loro.
E’ evidente che avere cura non è perdere tempo, ma anzi guadagnarlo nello sviluppo di significati, emozioni, confronto di esperienze, saper connettere eventi ed emozioni. E’ per me una fase essenziale della cura, diversa ovviamente secondo le diverse età. Dare tempo alla parola e al pensiero sui vissuti interiori è in questo momento centrale per una relazione educativa di cura. Non serve a fare una specie di “ricognizione indiretta” dei diversi dolori , ma invece a socializzare i diversi stati e darne una ragione e un senso. Potrebbero nascere molte connessioni anche con i saperi esterni ai ragazzi, che avrebbero al centro non un certo capitolo di un manuale ma “un interesse” reale dei nostri studenti. Dario Missaglia sostiene che questo è tempo di lavoro, che andrebbe registrato in un diario, e sono proprio d’accordo: non è perdita di tempo, ma guadagno di senso. Un tempo professionale autentico che va riconosciuto.
Il perdere tempo è una suggestione pedagogica per il brutto tempo presente che mi affascina per la sua intrinseca utilità ma anche per il valore solidaristico e civico che produce.
- Una cura educativa al telefono
Un piccolo suggerimento-stimolo che potrebbe avere diverse varianti e che tocca un tema centrale nella cura: il saper agire verso ogni persona partendo dall’individualità.
Accadrà ancora nei prossimi mesi che i bambini e i ragazzi debbano stare a casa o perché contagiati o perché in quarantena.
Potrebbe quindi essere una buona consuetudine se l’insegnante si fa vivo con una telefonata per salutare il suo studente, sapere come sta, fare due chiacchiere. Ovviamente anche questo è per me tempo vero di lavoro. Questo contatto diretto e individuale, perfino sorprendente per chi lo riceve, ha un significato pregnante a fronte di un ragazzino chiuso in casa e pieno di paure. Dà il segno dell’I CARE, dell’ “io ti penso”, del sapere che non sei solo.
Quest’idea me l’ha data un bambino triste di 5.a primaria che ha scritto a maggio 2020 alla maestra un messaggino che mi ha commosso. Scrive così: “Maestra, scusami se ogni tanto ti telefono. Te dici sempre che dobbiamo essere ottimisti. Allora quando sono nervoso ti chiamo. Sento la tua voce e mi calmo”. Questo si aspettano i bambini da noi: l’ascolto e la calma.
Se ogni ragazzo chiuso in casa per quarantena ricevesse una telefonata dal suo prof non se la dimentica più. Forse studierà anche più volentieri al ritorno a scuola.
”Sento la tua voce e mi calmo”. La voce capite? Non le tabelline o la storia. Straordinaria lezione di quanto possiamo contare per loro.
- Lavorare per curricoli adattati e ragionevoli: l’autonomia creativa
E’ probabile che il calendario delle lezioni verrà spesso travolto dalle varie vicissitudini del COVID. Potrebbero essere assenti anche alcuni insegnanti.
E’ forse giunto il momento del coraggio della flessibilità curricolare, adattata secondo le diverse condizioni, ore utili e flessibili secondo la situazione di fatto. Questo non è difficile in una scuola primaria e facilissimo in una dell’infanzia. Ma è ora che ci provino anche le medie e superiori. Porto qui alcuni esempi da sviluppare.
- pratiche di flessibilità organizzativo-didattica
Si potrebbero sperimentare curricoli con didattiche brevi aggregando più ore di una disciplina per settimana.
Si potrebbe lavorare per centri di interesse che coinvolgono più insegnamenti, in cui l’intercambiabilità dei docenti facilita il lavoro, anche con una ricerca degli snodi essenziali.
Si potrebbe lavorare più frequentemente per gruppi laboratoriali, in cui la questione presenza e distanza potrebbe essere adattata a gruppi che condividono un comune lavoro
Più in generale, è opportuno che in questo periodo si utilizzino il più possibile pratiche di didattica attiva, in forme flessibili. Proprio la cura necessaria ci chiede di dare ai ragazzi opportunità di apprendimento come protagonisti, interagenti, ricercatori e comunità. Potrebbero essere moduli interdisciplinari, ma comunque (nel rispetto delle regole) momenti e eventi in cui il ragazzo fa con gli altri, non solo ascolta.
- Pratiche di metodologica didattica attiva
Ed ora alcuni suggerimenti di carattere metodologico-didattico, tra le molte possibilità, spesso già note. Sono alcune proposte-stimolo nel vasto panorama didattico, che mettono insieme l’innovazione didattica con una migliore “cura” della fase emotiva e sociale dei nostri ragazzi.
Tutti i suggerimenti qui proposti hanno carattere di attivismo, di comunicazione interpersonale, di ricerca e possono avere adattamenti di grande flessibilità, anche potendo realizzarsi in forme “miste” con ragazzi in presenza e contemporaneamente in Dad.
Flipped classroom. Cioè le classi rovesciate, dove i ragazzi si documentano e fanno ricerca su un certo tema prima che se ne parli a scuola. Poi, nell’aula virtuale o fisica, discussione e presentazione da parte dei ragazzi del loro punto di vista, con un lavoro di scaffolding socratico del docente che lievita ed alimenta la discussione per giungere ad una consapevolezza comune.
I brevetti alla Freinet. attività individuali di studio-ricerca autonomamente scelte che ogni ragazzo approfondisce partendo dalle proprie passioni e interessi, che poi presenta nel gruppo di pari, come esperienza di comunicazione orizzontale, effetti di cooperazione, e auto-valutazione possibile da parte dello studente. Scrivendo questa proposta, mi sono ricordato della mia antica scuola media (anni 63-66) in cui il prof. faceva un po’ il Freinet, probabilmente non conoscendolo. In geografia in prima ci ha fatto scegliere una regione da far diventare ”nostra”, in seconda uno stato europeo, in terza uno extraeuropeo. Curiosa è la mia scelta: in prima il Friuli VG (terra dei miei nonni), in seconda l’Austria (perchè mio padre era andato a Vienna a veder la finale di coppa campioni Inter – Real Madrid, gol di Mazzola), la terza l’Argentina perché avevo lì uno zio prete salesiano. In tutti e tre gli anni ricordo ricerche appassionate (dai libri alle foto alle cartoline, ecc..), dall’Argentina mio zio mi scrisse una lunga lettera geo-politica e materiale. Nel lavoro d’aula ad ognuno di noi veniva chiesto di presentare “la sua” regione o nazione. Questi tre luoghi geografici mi sono ancora oggi un po’ rimaste nel cuore.
Freedom writer. Se qualcuno ha visto il film mi capisce: una classe di ragazzi di una zona disperata della California, un’insegnante intelligente propone loro di scrivere un diario personale con tutte le cose che gli passano nella loro tormentata mente. Ne esce un capolavoro didattico e l’incontro con…Anna Frank e il suo diario. La scrittura come comunicazione e riflessione è aspetto importante dello sviluppo, individuale e collettivo. Vi possono essere molte varianti che oggi con la tecnologia si possono fare a prescindere dall’aula fisica e dall’orario settimanale. Penso alla corrispondenza scolastico con classi e scuole di altri luoghi. Ma potrebbe essere anche la ripresa del giornalino scolastico, che oggi i computer rendono possibile colorati e ricchi.
la scrittura collettiva. Più seriamente, amo proporre la scrittura collettiva di don Milani e di Mario Lodi: un lavoro che parte da testi individuali, costruisce con una discussione collettiva un testo comune condiviso. Un’operazione cooperativa di grande efficacia relazionale, e di civismo.
La cura tra pari. In questa fase la relazione con i compagni di classe e di scuola è già di per sé un evento di cura. Dunque, sia che siano a scuola sia che siano a casa, si devono favorire forme di comunicazione, di solidarietà e di auto-aiuto tra compagni di classe come forma comunitaria di uscirne insieme. Sarebbe anche un eccellente modo di sostituire quelle cose orrende dette “recuperi” con pratiche di apprendimento dove ci si aiuta a vicenda.
Questo è il momento di rovesciare la sventura del COVID con una nuova avventura pedagogica, che non solo aiuti i ragazzi, ma dia anche un senso di cambiamento positivo per gli insegnanti. Anche loro hanno bisogno di passare dalle isole separate per discipline a comunità realmente educanti, non a parole.
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Non dimentichiamo la disabilità
Gli alunni con disabilità hanno pagato i diversi lockdown e le restrizioni legate al COVID molto più di tutti gli altri compagni di classe. Su di loro una pedagogia della cura deve essere ancora più attenta e di adattamento ragionevole.
Nella crisi complessiva dell’inclusione nelle nostre scuole, il COVID ha reso ancora più isolati e soli questi bambini e ragazzi. Sarebbe grave se si tornasse a circolari ministeriali che rendevano possibile il loro ritorno a scuola “da soli”, tanto per fare badantato, o magari (se la scuola è buona) con alcuni altri bambini o (peggio) con altri disabili . Cioè l’anticamera delle scuole speciali.
Molte delle proposte-stimolo sulla flessibilità didattica sopra presentate possono facilitare l’accoglienza dei nostri studenti con disabilità, ognuno titolare di un pensiero, di desideri e passioni, ma anche dolori. Perché l’accoglienza diventi invece un’appartenenza a pieno titolo.
Questi sei mesi sono importanti per costruire azioni di una nuova gruppalità solidale tra pari. Ne hanno bisogno tutti, anche gli altri. Perché la solidarietà serve a tutti reciprocamente, aiutare e aiutarsi. Perché, come sempre, sortirne insieme è la Politica.
Qui mi fermo. Non parlo qui del futuro più lontano dei prossimi sei mesi. Mi pare già tanto provare a non perdere o sfasciare la scuola in questo breve periodo. Breve ma delicatissimo, perché la crisi COVID rischia di lasciare troppi segni permanenti. E’ adesso l’ora di reagire e di ripensare al pedagogico. La pedagogia della cura è il nostro orizzonte attuale.