di Marco Guastavigna
Giornata calda, oggi!
Stamattina i miei tre nipoti tornano a scuola. Le due sorelle alla primaria dopo un periodo di quarantena, il terzo prima della sospensione dell’attività didattica per le festività.
Stasera è annunciata una conferenza del “premier” – carica istituzionale assente nella Carta costituzionale, ma privilegiata da quella stampata e da vecchi e nuovi media, nonché dalla maggioranza dei loro consumatori – Draghi sulla “questione scuola”.
I social (altro termine su cui andrebbe fatta chiarezza, visto che c’è chi associa all’aggettivo addirittura la parola “business”) ribollono. E io con essi.
Tra i vari aggregatori di like, mi colpiscono in particolare due casi.
Il primo è abbastanza breve, si intitola “Diventa anche tu pedagogista” e propone un gioco semantico obiettivamente divertente.
Da un lato elenca i concetti da utilizzare in un ipotetico discorso autopromozionale (merito – competenze – Invalsi – selezione dei docenti – digitale – comunità educante – metodologie didattiche innovative – laboratoriale – tablet – scuola finlandese – liceo breve – scuola affettuosa).
Dall’altro lato quelli da evitare o da includere con “palese disprezzo” (studio – imparare – lezione – lezione frontale – sapere – riflettere – astrarre – concentrazione – libri).
Con un’impostazione di questo genere, intelligente ironia polarizzata, il clickbait è garantito: da una parte il Bene, dall’altra il Male. E infatti pedagofobi contro pedagofili si scatenano con i “Mi piace”, le condivisioni (io stesso non ho letto il post originale, ma un derivato), i copia-e-incolla, i “posso rubare?”.
E non dimentichiamo che anche le contestazioni – nell’impostazione perversa della comunicazione efficace – sono segnale di successo, di incisività, di visibilità.
Le idee non vengono espresse e condivise perché inneschino discussione e confronto, un dibattito rispettoso dei diversi punti di vista, con obiettivo una sintesi, magari nell’interesse generale, ma perché suscitino polemica, facciano schierare, colpiscano l’immaginario.
Il comunicare 4.0, insomma, è fornire una prestazione, che verrà monitorata, computata e valorizzata dagli algoritmi della piattaforma su cui è immagazzinata.
L’orientamento tardo manicheo, per altro, caratterizza – per esempio nella forma “Chi è causa del suo mal…” – anche alcuni dei commenti in calce alla riproduzione su Facebook dell’articolo di Riccardo Luna “Perché la Dad è un’occasione persa”, pubblicato l’8 gennaio.
Testo che – lì per lì – sembra avere un approccio interessante: le posizioni emerse pubblicamente e diffusamente in questi giorni fanno infatti legittimamente pensare al nostro “personaggio pubblico” che siano stati sprecati due anni.
In realtà, egli è prigioniero dello stesso schema di fondo precedentemente denunciato, ovvero la feticizzazione dei concetti impiegati, in particolare “la Dad” (appunto), “il digitale”, “il computer”, “lo smartphone” “la distanza”, “la didattica tradizionale”.
Tutti al singolare, con tanto di articolo determinativo e tutti a definizione implicita, quasi ammiccante: cos’è la didattica a distanza? È ciò che tutti sanno che cosa sia. E lo stesso vale per quella in presenza o per quella tradizionale
Si tratta con certezza di una prospettiva rassicurante, perché sia chi scrive sia chi legge ha l’impressione di avere il pieno controllo del lessico e quindi di comprendere ogni aspetto e implicazione degli oggetti citati e delle situazioni richiamate.
Queste formulazioni sono invece – e sempre più con il passare degli anni scolastici a perdita secca che tutti sembrano aborrire, ma in cui tutti si fanno paralizzare – parole-ombrello.
Sono cioè polirematiche infettive, approssimative e nebulose, a cui ciascuno è libero di assegnare il significato e il senso che più gli aggradano, con lo scopo di confermare e valorizzare il proprio – immutato e orgogliosamente considerato immutabile – sistema di credenze, opinioni e pratiche.
Trattare in questo modo il tema delle relazioni didattiche emergenziali perché soggette a distanziamento precauzionale, però, non solo non aiuta a trovare una via d’uscita equa ed efficace, ma comprime ulteriormente e rende più che mai asfittica questa possibilità.
Lo stesso Luna, del resto, non sa andare oltre l’auspicio alla diffusione di un infantilizzante “super potere”, che deriverebbe dall’impiego di “moltissimi strumenti interattivi e di partecipazione che invece possono rendere la didattica a distanza interessante se non addirittura divertente”. Entusiasmo che, nell’epoca delle piattaforme estrattive a vocazione capitalistica ormai endemiche alla vita sociale e biologica è – almeno – ingenuo.
Se vogliamo compiere qualche passo nella direzione dell’elaborazione, dobbiamo abbandonare le nostre zone di comfort culturale e professionale e smettere di illuderci della sufficienza dei nostri saperi da scaffale, statici e ben ordinati.
Per accettare, invece, di affrontare l’incertezza e per costruire saperi a vocazione dinamica, che vadano oltre gli steccati tra le discipline accademiche, nella direzione di sinergie culturali e professionali con valenza emancipante e trasformativa.
È troppo tardi? Con Alberto Manzi, voglio sperare di no.