Che cos’è? Ovvero sulla filosofia insegnata agli allievi della primaria

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di Agata Gueli

Che cos’è? Ovvero sulla filosofia insegnata agli allievi della primaria
Che cos’è? , una domanda che ci sentiamo fare mille volte dai bambini quando sono nelle aule scolastiche, quando sono nelle loro case. Talmente tante volte da
riconoscerla solo come espressione di una curiosità da soddisfare velocemente, senza andare oltre.
Che cos’è?, τί ἐστί, è anche la domanda che Socrate pone ai suoi occasionali interlocutori, allorché vuole aprire con loro un confronto profondo sulla giustizia, ad esempio, per capire se sia meglio riceverla o farla, oppure sul bene, la virtù e altro ancora.
Così leggiamo negli scritti socratici di Platone e non abbiamo difficoltà ad affermare che ci stiamo occupando di filosofia, perché questo è l’orizzonte in cui si muovono Socrate e Platone, cioè quello della ricerca di significati da attribuire a qualcosa, di analizzare nessi, di dare risposte a domande complesse, senza, però riuscirci sempre in maniera univoca e non necessaria di altre indagini conoscitive.
Per quale ragione, allora, non attribuire alla domanda posta da un piccolo allievo della primaria il valore di un iniziale e possibile dialogo filosofico? In altri termini ci stiamo chiedendo se s a o no possibile fare filosofia con lui, con i suoi compagni.


La risposta è sì, si può, anzi si deve. Si può nel momento in cui quella domanda non si faccia morire dopo un’arida risposta, ma la si renda piattaforma ideale per dialogare insieme, per farsi insieme altre domande, per cercare risposte, ancora insieme.
Si deve perché solo così si dà senso e significato all’azione dell’istruire e dell’educare a scuola, individuandone il fine ultimo: formare il pensiero critico.
Andando per ordine, diciamo subito che nella generica formula didattica per competenze, ben nota ad ogni docente, occorre identificare un significato profondo della parola competenza, che rintraccio in Durkeim, allorché scrive che bisogna “costituire in lui (l’allievo) uno stato profondo, una sorta di polarità dell’anima che l’orienti in senso definito, non solo durante l’infanzia, ma per tutta la vita” (1)

La competenza, dunque, come stella polare per procedere sicuri nei sentieri della vita.
Ma come costruirla a scuola? La parola competenza evoca un metodo di lavoro, richiede processi da attivare, il clima favorevole per costruirla, la partecipazione emotiva degli allievi, ai quali fare vivere la sfida dell’impresa conoscitiva, la voglia di andare avanti. La classe come luogo in cui accettare con gioia la sfida della conoscenza, ogni aspetto della quale ri – costruire insieme, passo dopo passo, frammento dopo frammento, domanda dopo domanda. Come se ogni allievo fosse un interlocutore occasionale di Socrate.
Infatti è qui che risiede la sfida che il docente deve accogliere: sentirsi parte di una comunità ermeneutica, la classe, nella quale mettere in atto un modo di operare che ha a suo fondamento l’applicazione di una metodologia rigorosa, quale quella indicata dai fondatori della filosofia analitica di fine 1800 ed inizi 1900, che alla filosofia attribuirono (o ri-attribuirono?) il significato di un tessuto metodologico che, sostenuto da una solida padronanza epistemologica di ogni settore del sapere, rendesse possibile attivare processi di costruzione del sapere stesso o, in aggiunta, dei saperi nel loro interrelarsi continuo.

Allora, se la filosofia analitica considera l’analisi come un metodo di lavoro, questo in cosa consisterebbe nella classe della primaria ( e non solo)? Si realizzerebbe, a nostro avviso, attraverso i dià-logoi, cioè l’uso dei discorsi nell’interscambio delle idee, dei pensieri, per provare a costruire ogni conoscenza ricomponendone le parti, frammento dopo frammento. Come con un puzzle, o con le costruzioni che hanno appassionato ognuno di noi da bambini. Ogni pezzo è parte di una procedura che condurrà verso il risultato, l’apprendimento, che si rivelerà in tal modo autentico, dunque duraturo ed atto a produrre tratti fondamentali della “polarità dell’anima”, o, per dirla più correttamente, abiti mentali. E ogni allievo sarà lieto di avercela fatta da solo, perché messo nelle condizioni di porre domande, ricevere altre domande, esprimere ragionamenti, fare ipotesi, verificare, osservare, imparare: lui, con i compagni e l’insegnante, tutti immersi nella scoperta, passo dopo passo.
Tutti insieme a fare filosofia, ad apprendere filosofia. Usare la capacità di pensiero per fare filosofia; applicare le categorie del conoscere per apprendere. Ci ritorna in mente Aristotele con i suoi predicati ed anche Kant con le sue categorie della conoscenza: in entrambi i casi l’uso che se ne fa è quello di mettere ordine, di organizzare la conoscenza. È ciò di cui ha bisogno l’uomo sin da quando inizia a conoscere sé, il mondo e sé e il mondo insieme: mettere ordine, organizzare, ridurre il molteplice ad una unità di conoscenza. Così il nostro piccolo allievo condotto dal suo maestro o dalla sua maestra nelle vie del conoscere: “si tratta di un’educazione al pensiero logico e analitico diretto alla soluzione di problemi” (2), e “consente di
apprendere ed affrontare le situazioni in modo analitico, scomponendole nei vari aspetti che le caratterizzano e pianificando per ognuno le soluzioni più idonee” (3)

Quali gli ingredienti necessari per attivare questi processi di formazione del pensiero
critico, per costruire atteggiamenti non dogmatici, ma liberi e sovrani della conoscenza, per dirla con Don Milani? Mi limiterò ad indicarne uno soltanto, ma fondamentale: la padronanza epistemologica della disciplina che si insegna. Perché disciplina è un dispositivo organizzatore del sapere sapiente che deve essere trasformato in sapere insegnato. Ma senza conoscere il sapere sapiente, quello della scienza che sta prima della disciplina, non si sarà mai in grado di percorrere la via della ri-costruzione della sua essenza, delle sue ragioni profonde, quelle, per fare un esempio, che ti spiegano perché esistono i verbi e non solo i nomi, cosa sono le forme e cosa sono le funzioni nel sistema lingua. Allora, proviamo ad entrare in classe e a cominciare una lezione di grammatica con i nostri piccoli allievi ponendoci insieme una domanda: perché abbiamo inventato i verbi? Il resto verrà da sé.

(1)  In E. Morin, La testa ben fatta, 2000
(2) In INDICAZIONI NAZIONALI E NUOVI SCENARI, 2018
(3) ibidem

Sul tema del FARE FILOSOFIA CON I BAMBINI, puoi vedere anche un nostro video con una “lezione” di Matteo Saudino