di Raimondo Giunta
Le immagini pubbliche di un gruppo professionale o di una componente della società qualche volta non esprimono la realtà delle cose, ma hanno purtroppo una sicura incidenza nei rapporti umani, condizionandone lo sviluppo, gli esiti e la qualità.
Nel caso degli insegnanti ci si trova di fronte ad una molteplicità di rappresentazioni pubbliche, alcune delle quali, molto negative, sono il risultato di giudizi, che oscillano dall’avversione preconcetta alla misconoscenza delle condizioni dell’esercizio dell’insegnamento: “lavorano poco”; “non si aggiornano”; “non hanno professionalità”; “non sanno ascoltare”; “non sanno valutare”; “è un mestiere per donne “; “inculcano valori ostili alla famiglia”; ”nei momenti cruciali si danno per malati” e così via pre-giudicando.
Immagini costruite nel tempo senza parsimonia di mezzi dai media e anche da formazioni politiche che non godono del sostegno degli insegnanti. Altre rappresentazioni, che interagiscono spesso con le prime volendone essere una risposta, scaturiscono dal seno stesso della categoria degli insegnanti e alimentano la loro amarezza: “le famiglie non ci aiutano”; “pretendono cose che non ci appartengono”; “siamo insegnanti, non genitori o assistenti sociali”; “il lavoro che svolgiamo, quello vero, non è riconosciuto e nemmeno pagato”; ”come si fa a valutare un insegnante?”; ”ci vogliono servi, non professionisti responsabili e liberi cittadini” e così via imprecando.
I giorni difficili che la società sta vivendo hanno fatto emergere senza veli e reticenze come al suo equilibrio e alla sua civiltà sia necessaria una scuola che funzioni a pieno regime.
Non solo; nello stesso vociare fastidioso di chi mai si è interessato della scuola oggi rimbalza prepotentemente il bisogno di avere sempre e comunque tanti, ma tanti insegnanti a disposizione.
Di necessità bisogna fare virtù e cogliere questa occasione per rimettere a posto le cose. C’è una responsabilità di quelli che fanno e condizionano l’opinione pubblica, innanzitutto, del governo, dei partiti, dei sindacati, ma anche degli insegnanti stessi a ricondurre le immagini circolanti di questa professione alle dimensioni della realtà per ritrovare le idee e gli stimoli indispensabili per farne ancora un’attività preziosa e imprescindibile dello sviluppo civile di una società.
Il primo dato da considerare è che l’insegnamento è un mestiere cambiato e non può essere esercitato come qualche decennio fa.
Ed è cambiato perchè diversa è la collocazione della scuola nella società; diversa è una scuola d’élite dalla scuola di massa in cui si deve lavorare. Diversi sono diventati gli ambienti di apprendimento. C’è bisogno di una più ricca e articolata professionalità.
Secondo dato.
La sofferenza nel mestiere d’insegnante non è una suggestione psicologica di categoria, ma la realtà registrata in tutte le ricerche sociologiche sulla condizione degli insegnanti. Dallo status di “vestale della classe media” a quello di professionista proletarizzato si snoda il percorso del disincanto e della delusione. L’insegnante povero cristo non serve a nessuno; deve invece per il bene di tutti svolgere il proprio lavoro senza imbarazzo e senza umiliazioni.
Terzo dato.
Una società senza scuola e senza insegnanti non è pensabile e non ha senso. C’è un obbligo morale a scoprire e a valorizzare la ricchezza umana e sociale di questa professione al di là, oltre e contro tutti i pregiudizi.
E questo compito spetta a tutti: anche agli insegnanti che devono fare della dignità professionale un principio d’orientamento dentro e fuori la scuola. Un’arma di legittima difesa!
Quarto dato.
Gli stipendi non consentono agli insegnanti di condurre una vita dignitosa e anche se non si vuole o non si può arrivare alla fatidica meta degli stipendi europei, si deve procedere senza inventarsi nuovi carichi di lavoro ad aumenti sostanziosi.
Ci si può accontentare anche del necessario quando si è consapevoli di essere protagonisti di una grande battaglia di civiltà; per gli insegnanti entrati in servizio nei primi anni ’70 è stata la democrazia a scuola e la difesa del diritto allo studio per tutti; 50 anni dopo deve essere ancora la battaglia per la democrazia a scuola e nella società e per la giustizia nella società partendo dalla scuola.