di Maurizio Parodi
La sola, paradossale consolazione, derivante da una profonda conoscenza del nostro sistema scolastico, è data dalla speranza che le “Nuove Indicazioni” seguano il corso delle precedenti, incomparabilmente più evolute sotto il profilo, culturale, pedagogico, didattico, ovvero che restino lettera morta, sopraffatte dalla granitica autoreferenzialità della scuola reale.
Va anche detto che di queste nuove indicazioni non vi era alcun bisogno, semmai si sarebbe dovuto cercare di rendere operative le precedenti, così come non vi è alcun bisogno di una nuova Costituzione, ma di dare piena applicazione alla vigente, giusto per fare un esempio non peregrino.
In questo caso, dunque, potrebbe essere non del tutto disdicevole la portentosa capacità, propria di un’organizzazione a “legami deboli e trascurati” (Pietro Romei), come è la nostra scuola, di neutralizzare qualsivoglia istanza di cambiamento, nel bene più che nel male, restando indefettibilmente ancorata alle logiche e alle ritualità dell’apparato burocratico.
Nondimeno, turba il richiamo a principi e valori che potremmo definire reazionari, segno di tempi bui, tenebrosi.
Alcuni esempi, in ordine sparso.
Il riferimento a un principio di autorità che sembra debba essere indiscussa solo perché data, perché non bisogna disturbare il manovratore.
La separazione tra educazione, demandata alla famiglia, e istruzione, di competenza della scuola, come se l’insegnamento fosse semplice travaso di contenuti dal docente al discente.
La gerarchizzazione delle culture e la superiorità della “cultura occidentale”, perciò “intellettualmente padrona del mondo”, meritoriamente colonizzato.
L’“accoglienza” come mera assimilazione che ben si coniuga con il culto patriottistico dell’italianità (dopo i fasti del “Liceo del made in Italy”, ossimoro idiomatico).
L’integrazione che “dipende anche, in modo determinante, dalla conoscenza dell’identità storico-culturale del paese in cui ci si trova a vivere”, ignota o ignorata dagli stessi sovranisti locali.
L’anacronismo ideologico del latino opzionale, forse in omaggio alla romanità littoria, perché “aiuta a ragionare”, come se l’italiano aiutasse a rincitrullire.
L’“elaborato critico” come taumaturgica sanzione capace di inculcare nelle giovani menti le rette regole del vivere civile e dello stare in comunità (per dirla con Mario Maviglia).
L’esaltazione della scrittura manuale, magari il recupero della tavoletta di cera in alternativa tecnofobica al tablet, e poi il corsivo, la calligrafia, e perché non le asticelle e le cornicette.
La riflessione linguistica ridotta a ortografia e grammatica intese come applicazione di regole più o meno astratte e comprensibili (il carro messo davanti ai buoi di cui parlava Freinet).
L’esercizio del riassunto, pratica addestrativa, che, al pari di altre forme di scrittura “scolastica”, sterilizza e inaridisce la naturale propensione a esprimersi e comunicare anche verbalmente.
Le poesia mandata a memoria senza che se ne comprenda la ragione e, spesso, senza nemmeno comprendere il significato delle parole declamate.
Ho però apprezzato un passaggio che riporto integralmente essendo solo all’apparenza banale – basta fare un giro nelle scuole dell’infanzia e primarie per rendersi conto di quanto innaturale, artificioso sia il primo approccio alla lingua scritta.
Incanto e passione per la lettura e la scrittura nascono lì: dai primi incontri con la parola, col libro e con persone che sanno narrare. I bambini si impegnano molto precocemente nel processo di letto-scrittura e indagano da tenera età i principi e le regole che governano quei segni. Da una prima fase presillabica (detta anche ‘logografica’) passano, con la scoperta della corrispondenza tra segno e aspetto sonoro del parlato, a una fase sillabica e poi a quella alfabetica attraverso la progressiva padronanza della corrispondenza fonema-grafema propria dei sistemi di scrittura.
Credo che Emilia Ferreiro e Ana Teberoskj avrebbero gradito.