di Giovanni Fioravanti
Era il primo giorno del settembre 2023 quando è uscito il libretto a due mani di Ernesto Galli della Loggia e di Loredana Perla: Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo.
Con un artificio retorico si presentava come una sorta di promemoria, di appunti di lavoro. Ma subito dalla prima pagina formula la sua domanda dirompente: a cosa deve servire la scuola?
Che la pongano uno storico e una pedagogista fa specie e, dunque, è evidente che hanno già pronta la risposta che intendono fornire, convinti che la scuola debba piegarsi alla loro idea di formazione.
Sarebbe come chiedersi a cosa deve servire un ospedale. A curare i malati è ovvio, non c’è neppure bisogna di chiederselo.
Come la scuola serve ad istruire, in ogni società le giovani generazioni frequentano la scuola per essere istruite.
Se mai la domanda da porsi è come quella scuola debba istruire. Ed è la domanda a cui la pedagogia nella sua storia e più recentemente le scienze dell’educazione, le scienze umane, unitamente all’impegno professionale e culturale di tanti insegnanti hanno cercato di fornire risposte, adattandole alle rinnovate esigenze sociali e ai risultati delle ricerche in campo educativo e psicologico.
Invece la risposta dei nostri autori scavalca completamente la complessità della domanda che loro stessi pongono.
La risposta è formare gli italiani, educare le nuove generazioni all’identità italica. Sembra qualcosa di risorgimentale, alla Massimo D’Azeglio, ora che è fatta l’Italia, occorre fare gli Italiani.
Meno di due anni dopo il tema dell’identità italiana ritorna centrale caratterizzando le Nuove Indicazioni 2025, Scuola dell’infanzia, Primo ciclo di istruzione, del ministro Valditara, in realtà davvero troppo poco per giustificarne la stesura.
Sì, perché fino ad ora nessuno ha spiegato la necessità di nuove Indicazione rispetto a quelle in vigore dal 2012, che in molti casi attendono ancora d’essere applicate nonostante la loro prescrittività. Pare assurdo oggi pensare che sia possibile intervenire sugli apprendimenti scolastici senza che se ne spieghino le ragioni, senza citare cosa delle Indicazioni del 2012 non ha funzionato, è da considerarsi superato o addirittura inapplicabile. Un minimo di rigore scientifico richiederebbe che prima di ogni altra cosa si rispondesse a questi interrogativi, senza sottoporre la scuola a stress ingiustificati, solo perché si vuole imporre la propria visione dell’educazione a prescindere dalle necessità reali del sistema formativo.
Chi sentiva il bisogno di Nuove Indicazioni per la Scuola dell’Infanzia e per il Primo Ciclo di istruzione?
Se questa urgenza è emersa, quali esigenze poneva? Cosa delle Indicazioni del 2012, non corrisponde più alle necessità formative delle nuove generazioni che siedono sui banchi di scuola?
“L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”
Cosa è entrato in rotta di collisione con il dettato del secondo comma dell’articolo 1 sulla autonomia scolastica?
La scuola è un’istituzione delicata, che non può essere sottoposta agli urti delle scelte ideologiche di chi governa in un determinato momento della storia del paese.
La scuola è il luogo del rigore epistemico, è il luogo dove contenuti e metodi dell’apprendimento si aggiornano in base alla ricerca educativa e disciplinare, perché metodi e apprendimenti siano in linea con i risultati degli avanzamenti nei campi del sapere. Pensavamo che la stagione dei programmi alla Moratti fosse superata definitivamente e invece ecco il salto all’indietro, si continua nell’errore, perché ogni governo pensa che la scuola debba corrispondere all’idea di formazione di cui è portatore. Pareva che l’eredità gentiliana della scuola dei programmi potesse ormai appartenere definitivamente al passato e invece si sfornano Indicazione che sono un vero e proprio manifesto ideologico, un ritorno al passato mascherato da possibili ibridazioni tecnologiche che per essere pensate non necessitavano certo di trovare spazio tra le nuove Indicazioni, nulla aggiungendo a quanto ogni insegnate e scuola possa decidere in autonomia.
Emerge invece una cultura pedagogica come ancella della filosofia che sia lo storicismo, il personalismo od altro, un portato che da tempo ci pareva solo un ricordo dopo la nascita delle scienze dell’educazione. È vero che la nostra scuola è ancora di impianto gentiliano, ma la pratica dell’apprendimento nel quotidiano rumore d’aula si presuppone che sia da tutto questo ormai distante.
Allora un ministro non può decidere che gli piace di più l’aneddotica storica alla Muzio Scevola rispetto al rigore epistemologico che è il fondamento di ogni disciplina in cui si articola il sapere. Che la ricerca serve al rinnovamento dei saperi e dei metodi a cui le conoscenze che si apprendono a scuola devono rifarsi ed essere aggiornate.
Non è che si possono sfornare nuove Indicazioni senza argomentare quali carenze delle vecchie devono essere colmate, perché nuove conquiste nel campo degli apprendimenti richiedono che le pratiche scolastiche si pongano al passo con quanto di nuovo promette di migliorare i processi formativi. Diversamente chi poi deve applicarle perché prescrittive faticherà a comprenderne il senso e la necessità a scapito della scuola e dell’apprendimento degli alunni. Per cui, come spesso è accaduto e accade nella nostra scuola, ogni insegnate continuerà a procedere come sempre ha fatto, continuerà a insegnare allo stesso modo in cui è stato insegnato a lui.
Il problema vero che non può essere sottaciuto è che le Indicazioni del 2012 fanno a pugni con quelle del 2025 che il ministro Valditara propone al dibattito.
Nelle prime c’è scritto, a proposito di storia e di identità, che la formazione di una società multietnica e multiculturale porta con sé la tendenza a trasformare la storia da disciplina di studio a strumento di rappresentanza delle diverse identità, con il rischio di comprometterne il carattere scientifico e, conseguentemente, di diminuire la stessa efficacia formativa del curricolo. Sottolineo “compromettere il carattere scientifico” e “l’efficacia formativa del curricolo”.
Affermazioni ora smentite dalle nuove Indicazioni in cui, a proposito di storia e di identità, si sostiene come nella scuola primaria è necessario che l’insegnamento abbia al centro la dimensione nazionale italiana per far maturare nell’alunno la consapevolezza della propria identità di persona e di cittadino.
È nell’identità personale e culturale di ciascun allievo che le Nuove Indicazioni riconoscono la sostanza e la dignità della persona e per rimarcare tutto ciò ricorrono a citare gli articoli 2 e 3 della Costituzione e la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948.
E allora qualcuno ci deve spiegare cosa c’è di inadeguato, di superato nel paragrafo delle Indicazioni del 2012 “Centralità della persona”: “Le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale e le aperture offerte dalla rete di relazioni che la legano alla famiglia e agli ambiti sociali. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione.”
È chiaro che il re è nudo. Che l’operazione Valditara non è dettata dalla necessità di migliorare il nostro sistema formativo, di porre rimedio alle tante falle che lo caratterizzano, a combattere la dispersione scolastica, a rendere più efficace l’integrazione. Appare evidente che l’operazione del ministro Valditara altro non è che un’operazione ideologica volta a danneggiare la scuola come luogo della crescita individuale, della scoperta di sé, del pensiero critico, della propria realizzazione, come luogo dell’incontro con i saperi e i loro statuti, come luogo dell’acquisizione degli strumenti che permettono di accrescere sempre più in maniera autonoma le proprie conoscenze nella prospettiva di un apprendimento permanente che ci accompagni per tutta la vita.
Anziché apprendere a confrontarsi con la complessità si semplifica tutta in una visione culturale già precostituita che ha le sue radici nel personalismo, nello storicismo, nell’etnocentrismo, pensando di portare a compimento la missione storica di formare generazioni di italiani all’italianità quanto di più distante vi possa essere da una scuola in cui apprendere a comprendere, ad affrontare l’incertezza, a conoscere la condizione umana, a conoscere il nostro mondo globalizzato, ad attingere alle sorgenti di ogni morale, che sono solidarietà e responsabilità, ad orientarsi nella nostra civiltà, conoscerne la parte sommersa.
Edgar Morin, scriveva nel suo Insegnare a vivere, Manifesto per cambiare l’educazione: “La riforma della conoscenza e del pensiero dipende dalla riforma dell’educazione, che dipende dalla riforma della conoscenza e del pensiero” A questo tendevano le Indicazioni del 2012, non certo all’omologazione ad una presunta identità di italianità, come millantata con un salto all’indietro dalle Nuove indicazioni 2025 del trio Valditara, Perla, Galli della Loggia.
Sembra un ritorno alla scuola della zia Ebe di Luca Ricolfi e Paola Mastrocola, un tentativo di iniziare a porre riparo al danno scolastico di cui parlano nel loro libro, intanto fornendo un po’ di latino per l’educazione linguistica, che fa tanto pre-1962, causa di tutti i danni scolastici della scuola progressista di cui le Indicazioni del 2012 sono l’ultima espressione.