L’occasione demografica

di Stefano Stefanel

Il Rettore dell’Università Bocconi di Milano Francesco Billari e l’Ordinaria dell’Università del Molise Cecilia Tomassini hanno pubblicato sul Corriere della sera del 6 marzo 2025 un interessante articolo dal titolo “Scuola, l’occasione demografica”. Nella prima parte dell’articolo vengono evidenziati alcuni problemi strutturali della scuola e dell’università italiana:

  • il 38% degli uomini e il 33% tra le donne non ha ottenuto il diploma di scuola superiore”;
  • “nelle generazioni più giovani questa quota è ormai poco sopra 10%, ma rimaniamo tra i peggiori in Europa”;
  • “l’aumento della proporzione di diplomati al passare del tempo non ha risolto i problemi: quasi un maturando su due non raggiunge livelli soddisfacenti nella capacità di interpretare un testo scritto o non ha basi sufficienti in matematica”;
  • “rimane poi stagnante la proporzione di immatricolati che si iscrive all’università, attorno al 60%, preparando la strada per una quota di laureati che rimane tra le più basse nei paesi sviluppati”.

Poi i due docenti universitari osservano che “meno studenti significa che, a parità di costo complessivo, l’investimento pro-capite può aumentare. Alla minore quantità si potrebbe accompagnare così una maggiore qualità”. Dopo l’analisi viene scritta anche una petitio principii: “Bisogna essere scientifici e non ideologici, partendo dai dati e dalla ricerca sui sistemi scolastici.” I dati che vengono citati sono, ovviamente, corretti, ma la chiusa dell’articolo sembra uno di quei finali molto attesi dove lo spettatore viene però deluso dalla genericità della soluzione: “dobbiamo ripensare la scuola guardando ai modelli degli altri paesi, e trovando una nostra strada. Probabilmente, con una riforma radicale, a cent’anni da quella di Giovanni Gentile, che trasformi i bassi numeri della demografia in una qualità di uscita elevata dalle scuole secondarie e in disuguaglianze ridotte. Con più tempo, più investimenti sugli insegnanti che si mettono in gioco, e una maggiore centralità degli studenti. Guardando ai dati e non alle ideologie per valutare gli esiti.”

L’Università è centrale per l’Italia come per ogni paese evoluto. Ma ha una visione distorta del sistema scolastico, che pretende di governare o influenzare con una visione scientifica, cioè, legata al concetto di scientificità di un sistema selettivo che nessun contatto ha o può avere con la scuola dell’obbligo. Chiedere che oggi le forze politiche in campo (fortemente influenzate dai sindacati che difendono i lavoratori le une, con l’idea di trapiantare il sovranismo nella società attraverso la scuola l’altra) siano in grado di fare riforme epocali, significa “guardare il mondo da un oblò” e non tenere conto che la scuola italiana è dilaniata da vent’anni di riforme iniziate e non concluse (invito i due docenti universitari a valutare con attenzione, dati alla mano, le modalità riformistiche dell’attuale governo, fatte da proclami social e provvedimenti tutti sganciati dal governo del sistema). Inoltre, creare la categoria degli “insegnanti che si mettono in gioco” significa non aver tenuto conto dei motivi per cui è caduto colui che ha prodotto la miglior riforma possibile della scuola (Berlinguer) e di ciò che ha affossato qualunque tentativo di parlare di carriera dei docenti.

Sono d’accordo che per cambiare le cose evidenziate da Billari e Tomassini bisogna investire e non risparmiare. Ma gli investimenti che propongono sono sulla quantità in quanto la visione dell’università è quella per cui “più è sempre meglio” (più ore, più laboratori, più tirocini, più corsi monografici, più spazi, più docenti ordinari, più pubblicazioni). Nell’università “più è sempre meglio” è una verità. Ma nella scuola più soldi, classi meno numerose, più ore, più sostegno, più discipline non creano di per sé un sistema migliore. Il miglioramento deve riguardare tutti non solo “quelli che si mettono in gioco” e ogni miglioramento misurato (dati non ideologia, come scrivono Billari e Tomassini) mostrerebbe quali parti del sistema vanno cambiare o eliminate (il tentativo fatto attraverso il Sistema Nazionale di Valutazione e la rendicontazione sociale ha dato buoni esiti, ma solo formali e teorici).

Ci sono alcuni elementi da modificare per far sì che il calo demografico diventi un’opportunità:

  • modificare la valutazione degli studenti (i metodi in uso sono la causa principale della dispersione, perché influenzano sempre al negativo delle performance autoreferenziali)
  • introdurre un Sistema di Valutazione delle scuole, dei docenti e dei dirigenti con modalità premianti;
  • eliminare per sempre il concetto di programma e chiarire che il curricolo non è un’enciclopedia dello scibile disciplinare;
  • personalizzare il percorso egli studenti (così come fa l’università) finendola con classi e orari rigidi e imparando a lavorare su curricoli e competenze e vocazioni reali degli studenti anche in funzione dell’orientamento;
  • definire i contenuti disciplinari in forma sintetica e fondante, uscendo sia dall’enciclopedia, sia dall’ideologia che impone contenuti;
  • lavorare sulla veicolarità dei contenuti lasciando da parte i saperi inerti;
  • finendola di ritenere che i giovani di oggi siano preda del brain rot (cervello marcio a causa del digitale) mentre gli adulti (insegnanti in primis) sono il punto più alto della civiltà occidentale;
  • lavorare su una verticalità didattica strutturale 6-19 anni che sia preceduta da una verticalità educativa 0-6;
  • spingere i dirigenti ad occuparsi di didattica, non di amministrazione (settore dove ne sanno di più di Direttori dei Servizi Generali e Amministrativi).

Troppo generici, ma anche troppo potenti gli universitari.

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