La scuola che vorrei: insegnare a imparare

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone 

In prossimità della chiusura dello scorso anno scolastico, mi sono trovata ad osservare alcune situazioni che mi hanno incuriosito. In alcune classi di scuola primaria registravo un particolare affaticamento da parte di insegnanti che avevano trascorso l’anno fronteggiando nella propria classe, più situazioni concomitanti di ragazzini con difficoltà comportamentali e di apprendimento.
Da un lato emergevano problematiche particolarmente spinose e specifiche (psicopatologie precoci, comorbilità…) che rischiavano di cozzare con la routine dell’insegnamento riconosciuto come standardizzabile; dall’altro avvertivo la sensazione di un diffondersi a macchia d’olio, negli Istituti presso cui lavoro, di queste problematicità, il che sembrava rendere il fenomeno una tendenza in via di consolidamento.
Quella sensazione di fatica sovrabbondante, che stavo condividendo anch’io mi lasciava perplessa, col timore di essere inadempiente o di non aver bene compreso cosa stesse succedendo, qualcosa mi stava sfuggendo. Decisi di affrontare in qualche modo il disagio andando a verificare queste percezioni, misurare, seppure in modo approssimativo, questo eventuale fenomeno, per poterlo discutere poi col corpo docente.
Ad inizio settembre ho iniziato in modo sistematico la mia piccola ricerca che ha, ahimè, confermato i miei timori. Ho scelto di utilizzare motori di ricerca più accessibili e semplici, accogliere fonti altrettanto accessibili ma riconducili a contesti sanitari o assistenziali, perché insegnanti e genitori potessero eventualmente recuperarli e documentarsi anche in modo diretto. La riflessione sui dati ha sortito però anche una nuova prospettiva e ipotesi di lavoro in queste classi sempre più eterogenee.
Partirei da qualche dato emerso.
Effettivamente, le percentuali di alunni che mostrano Bisogni Educativi Speciali, così come le diagnosi di autismo e di plus dotazione, ogni anno risultano in aumento. I bambini con situazioni riconducibili ai BES, nel 2024, sono quantificati intorno al 10-15% del totale, cioè circa tre ragazzini per ogni classe; mentre coloro che risultano in possesso di una certificazione di diversa abilità si attestano intorno al 2-3%.
Per la diagnosi di autismo, ad esempio, al 2020, in Europa, si stima una prevalenza pari a un bambino su 160 in Danimarca e Svezia, 1 su 86 nel Regno Unito, e 1 su 77 nel nostro paese, in America 1 su 36, mentre la media mondiale si attesta intorno a 1 su 100. Tenendo conto che in Usa dal 2000 al 2020 la presenza è passata da 1 su 150 a 1 su 36, applicando una tendenza analoga, in Italia, al 2024, si dovrebbe attestare a 1 su 45-50, cioè almeno un bambino ogni due classi.
Analizzando invece i dati relativi ai bambini considerati gifted, cioè con plus dotazione, i soggetti che risultano con un QI maggiore o uguale a 130 sono circa il 2,5% della popolazione, mentre quelli che hanno un alto potenziale cognitivo con QI superiore a 120 sono circa il 5-6% della popolazione. Si tratta, indicativamente, di almeno uno studente per classe.
Per i bambini con DSA, invece, nella scuola primaria, nel 2020 ci si attesta sul 3% (classi III, IV, V con certificazione). Se ci concentriamo sulla sola scuola pubblica troviamo, nella primaria, il 2.97% e nella secondaria il 6,12%. Quest’ultimo dato conferma la presenza di un maggior numero di bambini con disturbi specifici di apprendimento che però vengono certificati solo tardivamente, ma sono già presenti nella scuola primaria, con le loro esigenze specifiche.

Tenendo conto di tutti questi dati, non sembra forse eccessivo pensare che quasi la metà degli allievi di una classe possa avere caratteristiche specifiche, di cui si debba tenere in conto nello svolgimento della didattica ed anche nella gestione della relazione educativa. Questo fenomeno potrebbe richiedere un capovolgimento dell’ottica, dell’approccio alla vita scolastica, portando a valorizzare la flessibilità e la modulazione delle attività come standard cui tendere.
In prima battuta, credo potrebbe essere utile adottare un atteggiamento preventivo, che consenta di mettere a fuoco la variabilità nella classe sin dai primi giorni di scuola. Per far questo può risultare particolarmente rilevante prestare attenzione ai campanelli d’allarme e alle difficoltà rinvenibili anche senza un aiuto specialistico.
Per i bambini con disturbi specifici dell’apprendimento, ad esempio, possono essere rinvenibili difficoltà a orientarsi nel tempo, nello spazio; nel ricordare delle sequenze (stagioni, settimana); a seguire racconti orali, anche con immagini; nello svolgere giochi più complessi (puzzle o costruzioni); a imparare il nome dei colori e i numeri fino al 10; nel disegno, nell’uso dello spazio sulla pagina, dei margini; nell’ampliare il vocabolario e usare strutture grammaticali corrette; nella comprensione delle consegne; nella memorizzazione di canzoni e filastrocche; così come lo scambiare una parola con l’altra e utilizzarla in modo errato nella frase.
Per i bisogni specifici educativi si possono evidenziare difficoltà di comportamento e di gestione delle emozioni; ritardi nello sviluppo psicomotorio e linguistico; problematiche di sonno, alimentazione e controllo sfinterico. Possono risultare inoltre fattori sfavorevoli i lutti, le separazioni conflittuali, o eventuali eventi traumatici.
Si tratta di problematiche spesso non facilmente comprensibili o rintracciabili dai genitori, che, per quanto attenti, dispongono di una casistica decisamente ridotta rispetto al corpo docente.

Un altro fenomeno in rapida espansione, di cui tenere conto nella valutazione delle esigenze educative, riguarda la fobia scolare. Anche in questo caso le concause possono essere molteplici, dalle difficoltà di distacco dai genitori, al sovraccarico socio-emotivo e cognitivo, come pure a noia, le difficoltà con i pari, senso di inadeguatezza. La cronicizzazione di questi disagi può gradualmente evolvere e in prossimità dell’adolescenza tramutarsi in chiusura sociale e rifugio in contesti apparentemente inesigenti come quelli virtuali di social e piattaforme giochi.
Per gestire le fatiche di separazione dal contesto familiare la proposta ad esempio potrebbe essere quella di preparare in anticipo il bambino o la bambina per evitare comunicazioni e gestualità frettolose ed imperative a favore di modalità ludiche ed entusiastiche rispetto a ciò che potrà offrire la giornata. Impostare una routine del mattino può risultare altrettanto efficace, unitamente all’intento di rendere i bambini un po’ protagonisti del processo, più che zavorre da trascinare fuori casa.
Perché ciò possa accadere risulta ricordare che qualunque apprendimento richiede anche una connessione in senso relazionale, la consapevolezza di un legame caratterizzato da biunivocità e reciprocità. È questo scambio a consentire il costituirsi e costruirsi, con gradualità, di una relazione di fiducia che consente al bambino di affidarsi e accogliere le proposte di uso del tempo e di immersione in altre relazioni sociali che gli adulti di riferimento hanno individuato come figure ausiliarie in loro assenza.
Non ultimo, occorre ricordare che le aspettative vanno calibrate sull’età dei bambini e sulla loro tappa evolutive, dunque devono essere aspettative realistiche, coerenti con la normale disregolazione emotiva dei piccoli, ancora in fase di apprendimento, e non idealistiche o viziate dalle necessità e dalle urgenze organizzative degli adulti.
Aprirei ancora una piccola parentesi proprio sulla plus dotazione, non descrivibile solo facendo riferimento al punteggio di quoziente intellettivo, bensì ricorrendo alle diverse specificità, in termini di neuro divergenza.
La plus dotazione è una dissincronia nello sviluppo in cui, elevate capacità cognitive ed il saper svolgere le attività con notevole intensità, si combinano per formare esperienze interiori ed una consapevolezza differenti dalla norma. Questo loro essere così particolari, rende i bambini plus dotati particolarmente vulnerabili e richiede l’utilizzo di uno stile parentale, di un’educazione, di metodi d’insegnamento e counseling particolari al fine di sviluppare appieno il loro potenziale (Columbus Group, 1991). La si può definire anche come interazione di fattori biologici e contestuali (Gagné, 2001).
In questo senso, il genio per definizione coglie ciò che gli altri non riescono a cogliere o intercettare con il rischio costante, però, di non aderire esattamente al cosiddetto senso comune. La plus dotazione allora non è soltanto identificabile come un dono, perché ‘può diventare una dannazione che amplia lo scarto tra me e la realtà trasformandosi in una difficoltà di ordine relazionale’ (D. Trapolino, npi IdO, 2021).

La nota MIUR 562 del 2019 inserisce ufficialmente la plusdotazione tra i BES e riconosce l’importanza di un’individuazione precoce. Attualmente, nella percezione di insegnanti e dirigenti la priorità sembra data, ancora, unicamente al punteggio del QI piuttosto che al riconoscimento e alla valorizzazione dei talenti. Il considerare lo sviluppo dei talenti, attraverso un approccio bio-psico sociale (OMS, 2001), ci induce invece a spostare il focus sulle potenzialità e sui talenti di ciascuno, e interrogarci su una possibile didattica dei talenti.
Ciò che già sappiamo è che esistono diverse strategie attivabili con questi ragazzi cominciando a dare maggiore importanza al ruolo dell’insegnante, che dunque non può e non dovrebbe essere quello di un “assistente” al clinico, intento cioè a individuare difficoltà, disturbi e bisogni “speciali”, quanto piuttosto promotore di apprendimento, facendo leva sui talenti di tutti, verso un modello di “scuola dei talenti” (Baldacci, 2002; Margiotta, 2018).
L’attenzione si sposta allora inequivocabilmente da contenuti a metodologie e approcci per insegnare a imparare in una scuola incubatrice di vocazioni/talenti che investa sul metodo di studio, valorizzi la didattica che promuove l’autonomia degli studenti anche attraverso recuperi personali e soprattutto metta al centro il dialogo con la classe per fare emergere esigenze e fragilità.
Lancio allora una provocazione: che l’eccezione diventi la norma! Provare, cioè, a ribaltare lo sguardo, come appesi al nastro o al trapezio a testa in giù, per riuscire ad usare gli stessi indicatori di P.d.P e P.E.I (ora pertinenza della patologia, ma usabili anche in fisiologia), e far volare ogni bambino, col proprio volo. Sfruttare, cioè, gli indicatori, le categorie, che ormai conosciamo sempre meglio, per dispensare, compensare, personalizzare, raggruppare; ma anche rendere più flessibili le strutture delle unità di apprendimento, integrare materie e contenuti, ridurre ma ridondare e, soprattutto cambiare!

Bibliografia
M. Brazzolotto, La plusdotazione in classe: le percezioni di alcuni insegnanti, genitori e dirigenti veneti, amsdottorato.unibo.it, 2020
S. Regina, Insegnare a imparare. Il ruolo della scuola e dei docenti, Focus Scuola, 2021
Redazione Cagliari pad, Scuola. Plusdotazione: statisticamente un ‘ragazzo gifted’ per classe, 2021
Centro Leonardo, Plusdotazione. Studenti con doppia eccezionalità, Ugo, 2021
S. Valesini, Perché i casi di autismo sono in aumento da decenni? Wired, 2023
I Bisogni Educativi Speciali: cosa sono e come accoglierli, Vanilla Magazine,2024

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