Un nuovo profilo: il dirigente scolastico giudice

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di Stefano Stefanel

Una ventina di anni fa c’era una dirigente scolastica distaccata ad un Ufficio Scolastico che amava accompagnare qualunque affermazione alla frase: “ce lo chiede l’Europa”. E a qualunque obiezione riguardo a contorte e astruse proposte che lei caldeggiava rispondeva allargando le braccia: “purtroppo ce lo chiede l’Europa”. Sono andato, a quel tempo, a cercare dove l’Europa ci diceva di fare questo o quello, ma non ho mai trovato nulla che assomigliasse anche lontanamente a quanto veniva proposto, ma poiché la dirigente era simpatica ed operativa ho dedotto che aveva capito meglio di me cosa realmente ci chiedeva l’Europa. Dopo vent’anni devo dire che, anche se veramente l’Europa ci chiedeva quello che la dirigente scolastica distaccata intendeva, poi l’Europa di quello che abbiamo fatto noi non ne ha fatto nulla. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.

In questi tempi il mantra si è spostato e davanti a qualunque decisione molti dirigenti scolastici dichiarano: “lo dice la legge”, “mi limito ad applicare la legge”. Davanti a questa apodittica declaratoria c’è la tendenza ad abbassare il capo e a ubbidire, anche perché verificare se c’è veramente una legge che dice quello che viene richiesto, prevede uno sforzo e perdite di tempo che, pare, pochi vogliono compiere. Meglio aspettare qualche sindacato che cominci a protestare o qualche chat che apra il dibattito.

La questione della legge è ben strana per due motivi:

  • se c’è una legge che prescrive di fare qualcosa senza “se e senza ma” come mai in almeno altri cinquemila istituti italiani questa cosa non la si fa?
  • in base a quale autorità un dirigente scolastico stabilisce cosa una legge dice o non dice? cioè, da dove deriva il suo ruolo di autentico interprete della norma?

I GIUDICI HANNO PIU’ DUBBI DEL DIRIGENTI SCOLASTICI

I giudici emanano sentenze (anche terribili e anche sbagliate) indicando nelle motivazioni le leggi a cui hanno fatto riferimento per giudicare e decidere. I giudici, però, sanno benissimo che i gradi di giudizio sono tre e, dunque, quello che decidono può essere riformato da un altro giudice, che applica le stesse leggi in altro modo. Le leggi sono sempre le stesse, ma la sensibilità giuridica, lo spazio del dibattimento, le motivazioni sono diverse.

Qualche dirigente scolastico invece, ritiene di essere una sorta di “primo grado di giudizio” irriformabile, per cui anche il più astruso e divisivo provvedimento non è nient’altro che l’applicazione della legge. Non si comprende, però, a quale titolo il dirigente scolastico sia diventato l’interpretazione autentica della legge. Le norme che disciplinano la dirigenza scolastica parlano di poteri (che derivano dalla legge), di titolarità, rappresentanza legale, responsabilità (sicurezza, privacy) che derivano sempre da leggi e compiti di organizzazione e gestione, che fanno, invece, riferimento ai poteri del dirigente scolastico, ma non sono una semplice applicazione della legge (sennò potrebbe pensarci ChatGPT), ma una complessa azione di leadership (qualche volta) o co-gestione (più spesso).

L’impressione è che in assenza di autorevolezza (spesso con pochi dipendenti che “ti filano”) venga scelta la strada impervia dell’autoritarismo, assegnandosi un compito (“applicare la legge”) che non caratterizza la dirigenza scolastica, ma altri poteri dello stato. Scambiare la gestione di un’organizzazione per l’applicazione di norme è, però, un grave abbaglio. Se ci si domanda perché c’è una diffusa tendenza a cadere nell’autoritarismo burocratico e cioè nell’emanazione ossessiva di comunicazioni, circolari, regolamenti (cioè di carta, carta, carta) che richiederebbero poi azioni costanti di controllo su tutto che non c’è tempo, modo, poteri per fare, la risposta ha due spiegazioni:

  • la linea del sindacato di categoria maggioritario ha spostato (con la maggioranza dei dirigenti scolastici concordi) il focus dalla leadership educativa e dal controllo e accompagnamento degli obiettivi formativi degli studenti verso una dirigenza amministrativa, burocratica, sempre preoccupata di salvare sé stessa dai rischi e con un debole interesse per gli esiti didattici e formativi degli studenti;
  • l’evidente facilità di dedicarsi con successo ad azioni amministrative (tutte le scuole d’Italia approvano programmi annuali, conti consuntivi, contratti, regolamenti e altro del genere) e la difficoltà spesso insormontabili ad incidere con il proprio stile dirigenziale sugli apprendimenti degli studenti e delle studentesse.

Il dirigente scolastico giudice che qualunque cosa fa lo fa e lo giustifica come applicazione della legge, oltre ad assegnarsi un compito non suo (sta al giudice stabilire se una legge è stata applicata nel modo giusto o in un modo scorretto), si spinge palesemente verso una posizione autoritaria che lo allontana dalla comunità scolastica (altro che comunità educante!) e lo porta nella triste china già esplorata dl Marchese del Grillo (”Io so io e voi non siete un c…”) che ha in sé elementi da avanspettacolo, ma non di gestione di persone nella società della conoscenza.

AMMINISTRAZIONE: MA ALLORA IL DSGA NE SA DI PIU’

Continuare a spingere verso una dirigenza amministrativa attenta alle procedure, ma non agli esiti, fortemente regolamentatrice dentro rigidità organizzative porta il dirigente scolastico ad occuparsi solo saltuariamente della didattica, della formazione, dell’offerta formativa. Ma se la strada della dirigenza è quella dell’amministrazione allora bisogna ammettere che i Direttori dei Servizi Generali e Amministrativi ne sanno di più, perché detengono il potere reale: quello della cassa.

La narrazione su ciò che fanno e non fanno i DSGA è facilmente desumibile da chat, interventi, dichiarazioni, laddove il potere di veto lo ha troppo spesso il DSGA e non il Dirigente scolastico, che spesso deve gestire un conflitto interno perché non riesce a far operare il DSGA come vorrebbe. Quindi non forza mai nei confronti dell’amministrazione, mentre tende a forzare nei confronti della parte docente, con esiti sempre deludenti per i risultati didattici della scuola. È una buona strategia? Per me no, perché il dirigente scolastico non può ergersi a giudice di alcunché e deve avere in mente un solo obiettivo: il miglioramento negli apprendimenti dei propri studenti. Organizzare una scuola non significa emanare circolari e scrivere carte, ma saper avvicinare il sentire comune per portarlo verso un modello di scuola chiaro e comprensibile. Dirigere una scuola significa far condividere obiettivi e missioni, non emanare regole su regole. Il modello di scuola deriva dal ruolo della scuola nei confronti dell’ambiente in cui è situata, dalla volontà collettiva di lavorare insieme, dal rapporto sinergico del dirigente scolastico con gli organi collegiali. Non certo dall’emanazione di editti con lunghi “visto”, “visto”, “visto” in premessa e non certo con quell’autoritarismo che si trasforma solo in burocrazia.

Guardando le cose con un cerro distacco penso si possa dire che la dirigenza scolastica sta andando verso la brutta china della burocrazia aggressiva, caratteristica propria di chi non vuole farsi valutare e si ritiene colui o colei che sa cos’è una legge, come la si applica, come si decide cosa la legge dice. Senza tener conto delle esperienze pregresse, del contesto, della propria organizzazione.