Una certa idea di scuola dell’infanzia

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di Imma Lascialfari

Da insegnante di scuola dell’infanzia, con ormai molti anni di servizio macinati sul mio cammino di maestra convinta, appassionata e impegnata, mi sembra che nel tempo questa scuola abbia preso direzioni non del tutto positive. Da troppo tempo continuo ad assistere quasi impotente allo svilimento di questa scuola, dei suoi valori, nella quotidianità, nel fare pratico, a discapito inaccettabile dei bambini e del loro diritto ad una crescita più rispettosa di quella che vedo.
Da anni.

Questa istituzione così importante, così complessa, così cruciale, nel tempo sostanzialmente non ce l’ha fatta, tolte alcune sporadiche realtà virtuose; non è riuscita completamente ad elevarsi, a perseguire, a concretizzare, a realizzare, l’idea di bambino, l’idea di educazione esplicitata nei vari documenti che si sono succeduti.
A partire dai  Nuovi Orientamenti del ’91, svolta epocale, alle Indicazioni Nazionali del 2012 con la loro revisione del 2018, fino ai contributi più recenti delle Linee pedagogiche del sistema integrato 0-6. Lettera morta. Molti insegnanti non ne conoscono neanche i contenuti. O li hanno dimenticati. Le nuove generazioni di laureati non sembrano averli interiorizzati. Fatte salve ovviamente quelle realtà, troppo poche, dove invece questo non accade.

Mi chiedo come sia possibile, intanto, che ancora si proponga troppo diffusamente una didattica di schede,  libretti operativi, di malintesi  prerequisiti, di precocismi, di stereotipi, di programmi preordinati, inframmezzati da quantità abnormi di cosiddetti progetti, tenuti da esperti di tutte le provenienze, o che ancora si investa tempo prezioso per la preparazione di saggi, recite e performance di ogni tipo.
Prevale ancora un modello di scuola della prestazione e dell’addestramento, dell’esecuzione.
Come sia possibile ignorare le metodologie indicate da autori come Bruner, come Freinet, come Dewey, come Malaguzzi, per citarne solo alcuni dei tanti, dei pensieri dei quali i documenti programmatici sono permeati.
Come si possano scavalcare gli studi sulla creatività e sul pensiero divergente tappezzando pareti e corridoi di lavoretti fotocopiati in serie. Come si possa non tenere conto delle ricerche delle neuroscienze che ci spiegano i “meccanismi” dell’apprendimento, con nuove conoscenze, ma anche con la conferma della fondatezza del pensiero illuminato dei padri della pedagogia e scuole di pensiero (come il socio-costruttivismo), e continuare invece a praticare una didattica di tipo trasmissivo  ancor più deteriorata dalla comodità del copia-incolla di contenuti razzolati qua e là dal web.

Mi chiedo come si possa consentire agli insegnanti di esercitare una professione così impegnativa dal punto di vista della responsabilità educativa ed etica, senza una formazione costante, senza momenti di riflessione e di analisi collegiali sul proprio operato. Come si possa permettere di non documentare, in modo serio, alcunché dei propri percorsi educativi e didattici, come si possa non coltivare affatto, in modo professionale, la relazione con le famiglie, come si possa così vistosamente fraintendere il concetto di continuità tra due ordini di scuola, proponendo gli ennesimi progetti basati sul… nulla.

Come si debba in una scuola, essere costretti a mendicare un incontro con le famiglie per accoglierle, coinvolgerle, e illustrare e condividere i percorsi didattici e i momenti di vita, e vederselo spesso negare.
Indisturbatamente.
Io vivo da anni “ braccata”, osteggiata, da uno stuolo di persone che si sentono in qualche modo, inspiegabilmente, offese, oltraggiate, da una persona singola, sistematicamente isolata, solo perché  esprime un’ idea di scuola ispirata dai sopra citati documenti, dai sopra citati autori, perché ha fatto e continua a fare della formazione un elemento irrinunciabile della sua professione.
Perché propone una metodologia ispirata alla co-costruzione attiva degli apprendimenti che si realizzano in itinere con i bambini stessi,  che crede nella valenza educativa degli spazi, sia interni che esterni, crede nella valorizzazione dell’imprevisto, da accogliere e non da escludere perché non programmato a monte. Perché crede nell’importanza dello stile comunicativo da rivolgere ai bambini, per favorire lo sviluppo di autonomia, autostima e fiducia.
Perché non riesce a separare i saperi in rigidi confini e in semplificazioni banali, ma pensa che tutte le esperienze e i vissuti possano tramutarsi in apprendimenti autentici, in competenze reali solo se realizzati nel fare, esplorare, scoprire, nell’ottica della ricerca-azione, e solo se pervase da una linfa emotiva, affettiva, e relazionale, e solo se interconnesse da legami di senso, in una composita visione narrativa.

Perché non crede nei “progetti scheggia” rovesciati sulle teste dei bambini. Perché crede nell’importanza dei momenti di routine, veri concentrati di apprendimenti significativi fluidi e naturali, in cui trovare i nuclei di quelle che Staccioli chiama “discipline diffuse”, e quindi da vivere e far vivere con cura e attenzione ai dettagli, e non come pratiche da espletare. Perché trova illogico e surreale il  nuovo fondamentalismo nato intorno al totem della Sicurezza, che viene sbandierata ad ogni piè sospinto per immobilizzare e inibire qualunque iniziativa, fino a spingersi ad impedire ai bambini di giocare con la terra del giardino o a cronometrare i minuti esatti in cui un’insegnante si può intrattenere a parlare con dei genitori per poi vedersi buttare letteralmente fuori, peggio che ad un colloquio carcerario.
Perché crede nell’importanza generale del curricolo implicito, della riflessione, dell’approfondimento. Perché crede nell’unicità di ogni bambino come patrimonio irripetibile da custodire.
Perché crede nella ricerca della qualità. La più alta possibile.

Del resto se nelle Indicazioni Nazionali si dichiara: “la scuola non può abdicare al compito di promuovere la capacità degli studenti di dare senso alla varietà delle loro esperienze, al fine di ridurre la frammentazione e il carattere episodico che rischiano di caratterizzare la vita dei bambini e degli adolescenti”, perché proporre una didattica frammentata e priva di senso riconoscibile dai bambini?

Se nella revisione delle Indicazioni 2018 si chiarisce che: “Nella scuola dell’infanzia non si tratta di organizzare e “insegnare” precocemente contenuti di conoscenza o linguaggi/abilità, perché i campi di esperienza vanno piuttosto visti come contesti culturali e pratici che “amplificano” l’esperienza dei bambini grazie al loro incontro con immagini, parole, sottolineature e “rilanci” promossi dall’intervento dell’insegnante”, perché si disattende completamente questa indicazione?

Se si stabilisce che: “La scuola si pone come spazio di incontro e di dialogo, di approfondimento culturale e  di reciproca formazione tra genitori e insegnanti”, perché di fatto questi momenti non vengono organizzati, valorizzati, bensì addirittura ostacolati da chi li richiede?

Non esiste una struttura cui rivolgersi non dico per riqualificare un contesto che manca completamente di quella famosa cornice di identità pedagogico-culturale articolata espressa da un curricolo implicito, ma semplicemente per chiedere aiuto, supporto, per poter esercitare il diritto di ottemperare alle Indicazioni Nazionali, di rispondere ai valori culturali di riferimento universalmente riconosciuti, senza per questo essere continuamente attaccata, a volte ferocemente, osteggiata, delegittimata, sminuita, invisa… “ Se non si può attaccare il ragionamento, si attacca il ragionatore” (Paul Valery).
È quello che accade puntualmente nel quotidiano a tanti docenti che non accettano il mainstream del disimpegno.

Le figure dei dirigenti, mutazione genetica di presidi e direttori didattici, ormai non sono più di riferimento, sempre più distanti, latitanti, deleganti, inavvicinabili, intrappolati in un ruolo manageriale sempre meno funzionale ad accogliere e comprendere tutta la complessità di un sistema scuola ormai svilito, disumanizzato ed assimilato a modelli aziendalistici. C’è da chiedersi se non sia compito della scuola dell’infanzia garantire livelli minimi di qualità educativa, anche attraverso un coordinamento pedagogico da esplicitare e su cui orientarsi? È corretto agire come se non ci fosse alcun vincolo operativo e ideale? Insomma, chiedo, i documenti, le Indicazioni, sono facoltativi? Sono solo dei meri consigli? E per chi vuole perseguire un minimo di qualità, chi, esclusi i dirigenti per le ragioni suddette, può essere il suo interlocutore? La libertà di insegnamento quindi può consentire di vedere bimbi di 5 anni con quadernoni ed esercizi da prima classe, zeppi di dettati e copie di parole, schede di pregrafismi, esercizi motori rigidi e strutturati, brutte fotocopie da colorare, prove su prove per lo spettacolo di turno, lezioni di coding, inglese, palestra, informatica, alimentazione, ambiente, educazione stradale, ecc ., senza soluzione di continuità? E continuare a vedere sempre più spesso bambini diversamente abili tagliati fuori, da quasi tutto, a cui spesso non si garantisce neanche la presenza dell’insegnante di sostegno? Possibile che la motivazione, l’entusiasmo, l’impegno di un insegnante richieda così tanta resilienza? Possibile che la scuola dell’infanzia rivesta ancora così poca importanza nella realtà, pur sapendo tutti quanto cruciali siano questi primi anni per la crescita dei bambini?

Naturalmente so che le mie sono domande retoriche, ma la mia testimonianza di insegnante fuori dal coro, un coro sordo e assordante, amareggiata, emarginata, mortificata, impantanata in una assurda palude di incomprensione, può servire per ribadire che un’altra idea di scuola dell’infanzia è possibile, lontana da ogni suggestione produttivistica. Una scuola che perde tempo ad ascoltare i bambini.