E come emancipazione: quattro passi per una pedagogia dell’emancipazione
di Giancarlo Cavinato
Freinet, leggiamo nella quarta di copertina della nostra pubblicazione ‘I 4 passi per una pedagogia dell’emancipazione’ del 2015, consiglia di non applicare tutte le tecniche in una volta pensando così di formare una classe cooperativa. La fretta, l’eccesso di zelo, l’entusiasmo potrebbero condurre a una sconfitta con conseguenze negative per la conduzione della classe.
Nelle sue raccomandazioni, non tutte attuali e condivisibili in toto, fra l’altro consiglia:
- impegnatevi in una tecnica che potete dominare
- per molto tempo, le pratiche tradizionali e le nuove pratiche nella vostra classe procederanno di pari passo
- iniziate con il testo libero ma non scolarizzatelo facendolo passare come sostitutivo del tema, solo lasciando la libertà di scelta del soggetto quindi come esecuzione ‘a comando’ (veramente raccomanda anche di conservare il libro di testo ma su questo in Italia siamo andati avanti anche a livello normativo pur essendo l’adozione alternativa praticata in realtà limitate)
- organizzate la cooperativa di classe il prima possibile (nel 1994 l’allora ministro Lombardi fece una convenzione con la Confcooperative trentina per l’istituzione della cooperativa di classe con nomina di un presidente e un segretario, il deposito di un libretto bancario, l’assemblea dei ‘soci’ e la scelta di attività a partire dalle classi quarte; forse, pur nel segno di un certo economicismo, la formula più vicina alla cooperativa di classe come la facevano Lodi, Ciari, i maestri di cooperazione educata. Dove lo sviluppo di attività remunerative- allevamenti, stampa e vendita di giornalini, realizzazione di spettacoli, mercatini erano le condizioni per esperienze culturali più ampie- uscite, visite, acquisto di materiali comuni, di cui tutti potessero fruire coltivando lo spirito comunitario.
Un esempio era la scuola a tempo pieno di via S. Erlembardo a Milano con l’orto, le galline, l’artigianato, la sartoria.
Si trattava di vivere e cogliere il senso profondamente umano, inclusivo, ‘politico’ del vivere con spirito cooperativo e nello stesso tempo l’aggancio con la vita materiale, le sue necessità, il rapporto studio-lavoro per una formazione integrale. Anche le attività all’esterno, la visita al maglificio, alla redazione del giornale, all’officina, all’azienda agricola sostenevano una forte connessione fra ambiente, risorse, bisogni umani, prospettive future.
Nel frattempo in Italia molte scuole a partire dall’infanzia fanno riferimento al cooperative learning dei fratelli Johnson o al metodo Feuerstein sull’apprendimento mediato, alle EAS e alla flipped classroom di Fanello, a Senza zaino o alle ‘situazioni autentiche’ di Castoldi così come al circle time- che non è il quoi de neuf (per non parlare del ‘metodo analogico’ by Bortolato); il limite di queste tecniche e metodologie è il loro essere funzionali a svolgere ‘bene’ l’attività scolastica proposta dall’insegnante, quindi di non coinvolgere l’intero impianto della vita della classe come modalità di convivenza e organizzazione di relazioni e conoscenze, non andando ad incidere sulla conquista dell’autonomia, cosa invece che è al cuore delle preoccupazioni della pedagogia Freinet e della classe a funzionamento cooperativo; l’insieme di queste proposte non è da respingere anzi alcuni stimoli sono indubbiamente utili a comporre un quadro di attività varie e ad evitare forme di saturazione psicologica ma bisogna tener presente che risolvere tutta un’organizzazione con la loro applicazione univoca comporta un depotenziamento rispetto alle prospettive della nostra politica pedagogica. Oggi pensare alla cooperazione stile cooperative artigiane e operaie di produzione consumo e lotta può risultare arcaico e del tutto superato nella società liquida e postmoderna ma quale modello di società abbiamo in mente a fronte di quello neoliberista? Quale classe cooperativa, con che obiettivi?
- organizzate il prima possibile il lavoro individualizzato dei bambini
- non eliminate d’autorità i voti e le classificazioni (qui si può essere parzialmente d’accordo se non c’é negli insegnanti una piena comprensione della valenza della costruzione di senso delle attività da parte dei ragazzi e se la riforma viene solo dall’alto: come ha evidenziato l’esito della riforma del 1977 con l’introduzione della scheda di valutazione, la sua progressiva burocratizzazione, in assenza di un lavoro di discussione con la classe, di sensibilizzazione profonda del significato e della funzione della valutazione con i ragazzi, un’analisi degli effetti della creazione di gerarchie, competitività, sopravvalutazione delle proprie possibilità, l’esito non è migliorativo rispetto all’uso dei voti e temiamo che lo stesso accada con un’applicazione meccanica ed esecutiva della direttiva 172).
- non eliminate drasticamente le lezioni ma trasformate gradualmente la classe in una classe-laboratorio (possibilmente articolando gli spazi con le aule e spazi biblioteca, teatro, spazi laboratorio attrezzati, spazi ampi per la socialità)
Una classe cooperativa non si crea nel giro di un giorno, ha bisogno di tempo predisposizione dell’ambiente dispositivi mediatori di relazioni partecipazione e condivisione. Non può essere il punto di partenza ma quello di arrivo. Se i vantaggi della cooperazione sono evidenti, come creare cooperazione è meno evidente. Per questo, e per contrastare quella che da più parti è stata definita la ‘pedagogia grigia’ quella dell’aula sempre chiusa in se stessa, del quadrinomio LSEI (lezione studio esercizio interrogazione) la segreteria nazionale MCE ha pensato ad un impianto a forma di quadrilatero. I 4 passi.
4 passi perché
E’ evidente, anche alla luce delle raccomandazioni di Freinet, come alcuni strumenti e tecniche possano costituire elementi di traino e cambiamento di struttura del lavoro didattico. Nella pubblicazione citata si individuava la pedagogia dell’emancipazione per il pieno sviluppo di tutte le potenzialità umane, sociali, conoscitive di ciascuno/a da realizzarsi attraverso diversi passaggi (passi) quali condizioni che possano preservare dalla normalizzazione dei soggetti che si esprime attraverso condizionamenti, discriminazioni, induzione di stereotipi e pregiudizi, conformismo, induzione di percezioni distorte della realtà.
La scuola, inconsapevolmente o meno, contribuisce a indurre tali atteggiamenti quando:
- non dà spazio all’espressione, alla parola, al coinvolgimento nelle scelte di vita non prevedendo una formazione alle pratiche democratiche (per emancipare è necessario ricorrere a strumenti di democrazia e consentire la pratica della parola manifesto del gruppo lingua Educare alla parola)
- propone un sapere già tutto predisposto e confezionato senza una pratica di ricerca in gruppi eterogenei (non tutti possono sapere tutto, ma ognuno può sapere e offrire qualcos nello spirito del mercato delle conoscenze) attraverso l’uso di una pluralità di fonti e la dotazione di una biblioteca che viene via via ampliandosi attraverso l’adozione alternativa (cfr. manifesto RicercAdozione; per fare ricerca è necessario che gli insegnanti possiedano una padronanza degli apparati disciplinari così da consentire approcci trasversali e multidisciplinari dal momento che i campi delle discipline sono in costante espansione e nuove discipline incrocio mettono in discussione le precedenti separazioni e le ‘materie’ tradizionali; (su questo credo abbiamo bisogno di una formazione comune); manifesto sull’insegnamento della matematica;
- esaurisce l’intero ambito dell’esperienza scolastica nello spazio aula in gruppi classe chiusi e non comunicanti in cui vige una sola modalità di funzionamento comunicativo e ricettivo, quella dell’insegnante, il che non consente una differenziazione didattica e un adeguamento ai diversi stili (uditivi, visivi, globali, analitici, strategici e programmatici,…) a cui rispondere con un’articolazione per classi aperte in orizzontale e in verticale che consentano, sulla base di unità tematiche, una suddivisione di compiti e una didattica laboratoriale per affrontare da diversi punti di vista un problema (scientifici linguistici storici artistici sonori visivi) con l’uso di una pluralità di strumenti e codici (medialità) contribuendo a creare quell’aggancio fra discipline e concezioni umane e sociali e scientifiche e ambientali (che dovrebbe essere l’aspirazione per formare menti in grado di connettere). Senza una sperimentazione di una varietà di materiali e l’elaborazione di una pluralità di stimoli e la scoperta delle risonanze che provocano in ognuno non c’è reale interiorizzazione di concetti e questa la consente solo la didattica laboratoriale
- attraverso una valutazione soltanto quantitativa, attraverso prove di verifica a risposta univoca che formano un’idea di oggettività e verità assolute, introduce categorie di merito e di esito e quindi gerarchie di valore anziché perseguire, attraverso la valorizzazione dei processi anziché dei soli prodotti, il successo educativo di ognuno che la valutazione formativa si propone. Il che richiede tempi e spazi per l’autovalutazione, la revisione da parte del docente della progettazione e l’analisi delle cause degli insuccessi, l’attenzione ai processi di gruppo e non solo a quelli personali. Non è stato facile nel corso del tempo pervenire a una tale concezione della valutazione come lettura di processi e azione di attribuzione di valore, rinunciare a esiti certi attraverso domande quiz e problemi standard che non aprono spazi di pensiero probabilistico e flessibile. Bisogna ragionare sulla ‘normalità’, le etichette, le categorizzazioni, con strumenti che vanno dall’antropologia alla statistica alla documentazione pedagogica. Tuttora non è facile ma…si può fare se usciamo da una certa indifferenza per alcuni modi e criteri di analisi rispetto ad altri.
Il combinato disposto di queste pratiche produce un tipo di allievo o un altro tipo di allievo, e noi proponiamo di scegliere il secondo tipo autonomo, svincolato da regole rigide, che non basa le sue acquisizioni sulla memoria ma sviluppa intuizione e spirito di collaborazione allo stesso tempo. Sapere rinunciare ad alcune proprie prerogative non è semplice e immediato, ma ciascuno dei passaggi richiede di mettersi in disposizione ricettiva con e verso gli altri. Solo così la cooperazione può nel tempo diventare costume quotidiano.
Si dice ‘perché solo 4 passi’ ‘perché non anche altri’ gli strumenti… il piano di lavoro… le discipline… è un discorso aperto.
Va però ricordato che già negli anni 70 i testi e le disposizioni legislative allora avanzate avevano individuato questi punti come nodali.
Il documento della commissione sull’integrazione presieduto dalla allora tanto vituperata ministra Falcucci del 1975 prevedeva, per una integrazione che non fosse banale inserimento, per TUTTI gli alunni
- tempo pieno
- classi aperte
- laboratori
- pratiche di valutazione non selettive
- attenzione e cura delle differenze
- socializzazione ( male interpretata e spesso deriva ‘tanto basta che R. socializzi’) ma il cui vero significato risiedeva nell’assunzione dell’impegno alla comune crescita anche dei disabili da parte dell’intera comunità educante.
Come sempre in Italia siamo bravissimi nel fare riforme epocali ma incapaci di sostenerle e creare le condizioni per mantenerle efficaci.
Ovviamente è stato il tempo pieno il contesto dove maggior fattibilità queste proposte hanno avuto esito e seguito. Ma il tempo pieno è stato appunto il luogo dove non la singola classe era la sede delle attività ma l’intera scuola e ognuno si prendeva cura dell’insieme. Se riduciamo tutto nella classe beh… non siamo nella Francia degli anni 30 con scuolette turali e classi piccole.
Amici e compagni, pensiamoci bene prima di sostituire termini ( e proposte) che non sono esattamente equipollenti. Da alcuni anni portiamo in giro i 4 passi con laboratori e interventi, dovremmo uscire da una certa autoreferenzialità- mi si passi il termine- dei singoli passi per un lavoro interconnesso.