La scuola secondo Valditara: la scuola come punizione

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di Simonetta Fasoli

Come prevedibile, il ddl che ridisegna i contorni della scuola al tempo della destra al governo è stato approvato in via definitiva alla Camera e attende ora la pubblicazione in G.U. per entrare in vigore.
I successivi decreti attuativi ne assicureranno l’effettiva operatività.
È un provvedimento che investe diverse materie, con l’intento dichiarato di ridare credibilità e strumenti di sostegno a un’istituzione in evidente affanno. Intento lodevole…se non fosse che, a ben vedere e a mio parere, va in direzione contraria, come cercherò di argomentare.

Le analisi punto per punto sul testo (che ho ovviamente letto nella versione appena approvata) le lascio volentieri agli/alle esegeti di professione, che non mancheranno. A me interessa ragionare sullo spirito di fondo che “anima” il provvedimento (senza dargli il respiro di un disegno politico-culturale degno della posta in gioco) e che i singoli dispositivi lasciano trasparire più o meno esplicitamente.

È uno spirito, dal mio punto di vista (condiviso, a quanto leggo, dalle prime reazioni nel campo politico di opposizione) fortemente anti-educativo.
Sì, lo so che il senso comune fa esultare alcun* di fronte a quello che la norma promette (e minaccia) accogliendolo come quella stretta “liberatoria” che fa sentire sollevat* i molt*, e temo i più, al pensiero sommario “era ora!”. Ma il senso comune non è buon senso, non sempre, e in certi casi richiede una riflessione per essere smontato.
La prima considerazione è certamente quella per cui, in campo educativo, le punizioni che sanzionano i comportamenti inadeguati assai difficilmente funzionano. Potremmo spingerci ad estendere questa affermazione anche nel campo giuridico, ma su questo terreno lascio parlare voci esperte…
Parlo invece di quello che più da vicino ho sperimentato, da persona di scuola, e su cui continuo a riflettere: l’educazione e la scuola.
Per dire anzitutto che l’educazione è essenzialmente “relazione”. Ovvio? Certo, ma a quanto pare non scontato. Questo è il punto. E la domanda che ne emerge è: cosa ne è della relazione educativa in un regime che parla il linguaggio della punizione, e della “correzione” con meccanismi di automatismo sanzionatorio? Io penso che il terreno della relazione arretra a misura che avanza quello della punizione (sia pure, come dice quel falso buon senso, inferta a fini “educativi”).
Chi come me ha avuto esperienza diretta di contesti educativi sa bene che nella punizione, indipendentemente dalla consistenza del provvedimento, è implicita un’ammissione di impotenza.
La scuola che punisce è la scuola che si è arresa e ha rinunciato al suo compito.
La sanzione “sospende” non l’alunno ma il campo della relazione, dunque il terreno in cui la scuola agisce.

Questo anche quando, come nel provvedimento appena varato, ricorre all’espediente di mantenere l’alunno nelle aule scolastiche, con vari compiti da svolgere. Qui la natura delle sanzioni comminate si fa sottile nella forma quanto rudimentale nella sostanza.
È un vero e proprio paradosso pedagogico, ad esempio, prevedere per le sospensioni lievi (fino a due giorni) attività di “approfondimento” da svolgere a scuola. Per cui chi le deve eseguire è autorizzato a pensare che la scuola sia una punizione. Cosa che pensa già di suo, con tutta evidenza, e che qualunque percorso minimamente “educativo” dovrebbe invece contribuire a rivedere e in prospettiva a rimuovere.
La resa della scuola è altrettanto palese, e carica di conseguenze, nel caso di comportamenti più gravi, per i quali è previsto un percorso “rieducativo” in non meglio precisate (attendiamo elenchi e/o criteri di selezione nei decreti attuativi…) strutture convenzionate. Qui i reprobi, “finalmente” fuori dagli ambienti scolastici, dovrebbero per un prodigioso effetto di lontananza scoprirsi interessati a svolgere attività di “cittadinanza solidale”. Addirittura.

Il capolavoro pedagogico, coronamento della scuola “Valditara & C”, rifulge in sede di valutazione finale: il voto di condotta, calibrato come la bilancia di una preparazione galenica, in caso sia pari a 6, configura un “debito formativo” (che considera, udite udite, la condotta al pari di una “materia”…).
E qual è il “contrappasso” pensato dalle acute menti che allignano in Viale Trastevere? In caso si sia all’ultimo anno, prima degli esami lo studente dovrà sostenere un colloquio centrato su un elaborato di educazione civica. Argomenti di “cittadinanza attiva e solidale”, neanche a dirlo. Del resto le recenti “Linee guida” ministeriali sono state presentate come il coronamento dell’insegnamento di Educazione civica, ponendo le premesse di ogni accezione più o meno aberrante della relativa “materia”.

Non c’è bisogno di ardite dietrologie per immaginare che tipo di prestazione didattica viene richiesta nell’occasione e l’uso punitivo-repressivo riservato a chi ha “meritato” il famigerato 6 in condotta…Insomma, una piena e argomentata ritrattazione. Tutt* discepoli dello storico detto secondo cui “Parigi val bene una messa”…E con ciò la funzione dis-educativa è compiuta.

Mi fermo qui. Non c’è altro da aggiungere, se non che ci troviamo di fronte ad una norma che ha valore di legge della nostra Repubblica: dunque, piaccia o meno, cogente e produttrice di effetti.
C’è da augurarsi che si sviluppi da questo un significativo movimento di opposizione militante: non nel Parlamento, dove i numeri schiaccianti di questa legislatura lasciano pochi o nulli strumenti di agibilità. Un’opposizione nel Paese, nella società. La scuola che arretra e si arrende rispetto al proprio compito costituzionale non è affare solo degli insegnanti, degli educatori, degli studenti e delle famiglie, ma di tutt* i cittadini, di più: di tutt* coloro che vivono in questo Paese.

Intanto, auspico che nelle istituzioni scolastiche si apra un fitto dibattito sui provvedimenti e sulle strategie di contrasto che le stesse norme sull’autonomia consentono. Ma non basta. Ci vuole un soprassalto di senso civico condiviso e operante nel tessuto sociale, per sviluppare in tutte le direzioni quelle forme di “cittadinanza attiva” evocate strumentalmente nel testo. Non perchè lo dice una norma di questo governo, ma perchè è la risposta giusta a un disegno autoritario e repressivo.