A partire da quest’anno scolastico avrà inizio la sperimentazione dei corsi di studio quadriennali dell’Istruzione secondaria tecnica e professionale, che dovrebbero assicurare agli studenti il raggiungimento degli obiettivi specifici di apprendimento e delle competenze già previsti per i normali corsi quinquennali, garantendo il conseguimento in anticipo del diploma di istruzione secondaria di secondo grado all’esito dell’Esame di Stato.
Sono 176 gli istituti che ospiteranno questi corsi e 95 sono collocati nel Sud.
Nei 4 anni di studio avranno grande rilievo le attività di alternanza scuola lavoro, il potenziamento delle discipline STEM, il processo di internazionalizzazione, la didattica laboratoriale e l’adozione di metodologie innovative.
È previsto il coinvolgimento di docenti aziendali, che avranno il compito di adeguare la formazione degli studenti ai bisogni del territorio e alle innovazioni.
E’ tratto caratteristico e identitario dei corsi 4+2 la scelta dell’integrazione con il mondo del lavoro.
Per dare inizio alla sperimentazione le scuole, infatti, hanno dovuto sottoscrivere almeno un accordo di partenariato con un’azienda del territorio, grazie al quale potrà essere sviluppata l’alternanza scuola-lavoro, ritornata alle 400 ore complessive per quattro anni di corso. La collaborazione delle aziende potrà, inoltre, consentire lo sviluppo di corsi specifici rispondenti alle singole esigenze territoriali, ricorrendo al potenziamento di una o più materie di indirizzo.
Non è dato di sapere se questa innovazione prenderà piede nelle scuole, ma non è improbabile che possa trovare il consenso di molte famiglie che vedrebbero di buon occhio la riduzione del tempo scolastico, soprattutto se condita con l’illusione di una più rapida inclusione dei propri figli nel mondo del lavoro.
Perché questa è di fatto la promessa che sta dietro l’innovazione dei corsi quadriennali.
L’obiettivo dichiarato è quello di offrire agli studenti una formazione vicina alle esigenze del mondo del lavoro, che agevoli al contempo sia la prosecuzione degli studi nei percorsi di istruzione terziaria degli ITS, con il conseguimento finale, in sei anni, di un titolo di alta specializzazione tecnica, sia l’iscrizione all’Università.
Tutto bello e tutto facile, ma si dimentica che ci si lamenta e ci si è lamentati spesso della qualità dei diplomati e dei laureati. Com’è possibile, allora, che come rimedio si proponga la riduzione degli anni di scolarità in uno degli indirizzi più significativi della scuola italiana?
Chi conosce la scuola sa che va riqualificata, riassettata, stabilizzata, rasserenata e sostenuta e sa che gli alunni nella quasi totalità hanno bisogno di tempi lunghi e non di didattiche brevi per maturare sul piano umano, intellettuale e professionale.
Questa storia dei quattro anni delle superiori o quella dell’età di uscita dalla scuola, di un anno in più rispetto alle scuole europee, è una scusa per ridurre le spese dell’istruzione? Risponde davvero al requisito dell’occupabilità delle nuove generazioni?
L’ampiezza della disoccupazione giovanile è un vero problema, ma non dipende solo dal disallineamento tra istruzione ed esigenze del mondo del lavoro e allora perché questa fretta?
Non toccherà forse all’attuale generazione il destino di andare in pensione a 70 anni?
Questa riforma vorrebbe rispondere ai bisogni immediati di personale delle aziende; risponde anche alle esigenze di una forte e duratura preparazione dei giovani che hanno scelto gli indirizzi tecnici e professionali?
E’ possibile che quando si parla di istruzione tecnica e professionale l’unica preoccupazione sia l’immediata e fantasticata occupabilità e che ne debba fare le spese l’approfondimento culturale delle discipline base della formazione tecnica?
L’istruzione tecnica è il prodotto originale del sistema scolastico italiano, che bisognerebbe difendere e tutelare con grande energia, e invece negli ultimi 20 anni non c’è ministro che non voglia passare alla storia per averla messa a soqquadro. L’innovazione 4+2 andrebbe iscritta nella ricorrente e immotivata pretesa di trasformare i percorsi di istruzione tecnica e professionale in lunghi periodi di formazione professionale, sperando di andare incontro nello stesso tempo alle esigenze immediate delle aziende e al bisogno di occupazione di alcune fasce sociali.
Non ha un grande respiro e forse nemmeno un grande futuro.
Le scuole della facile occupabilità sono quelle che vanno fuori mercato più facilmente e prima nelle società con alto tasso di innovazione e di sviluppo. Lo scarto tra istruzione e mondo del lavoro è strutturale e non è la ricorsa all’ultima novità che colmerà il distacco; potrà farlo un’istruzione che coltivi la solidità del possesso dei saperi e delle metodologie che li connotano; unico modo per orientarsi nel mondo che non smette mai di cambiare.
Mette tristezza doversi confrontare con questi tentativi periodici di ridimensionare la durata dei curricoli scolastici; si vuole chiudere per sempre la stagione nella quale si vantava come conquista di civiltà portare a 5 anni i professionali e il magistrale.
A pensarci bene non è proprio un bel messaggio quello che si invia alle nuove generazioni.