di Marco Guastavigna
Sta per cominciare l’ennesimo anno scolastico.
Su questo incombe una terribile minaccia: essere caratterizzato dalle quattro stagioni dell’intelligenza artificiale.
Non nel senso della circolarità dei 12 mesi, ma in quello della mescolanza e della confusione dei sapori. L’aggettivo “generativa” (denotazione fondamentale e dirimente, almeno dall’epifania mediatica di ChatGPT), è già scomparso dall’orizzonte lessicale e dalla tecnica operativa. Gli accademici hanno occupato “manu epistemica” lo spazio della discussione. Reti di scuole si accingono a curricularizzare le versioni beta di applicazioni in costante adattamento alle richieste e ai feedback del mercato dell’istruzione.
Dai livelli più alti del tecno-feudalesimo nostrano è tuttavia percolata una formula che sembra mettere tutti d’accordo, anche quelli che si schierano contro, una sorta di impasto trasversale e digeribile da tutti: l’IA può servire a personalizzare la didattica e a ridurre la burocrazia.
Mentre aspettiamo che la prima istanza sappia andare oltre ai quiz delegati agli accrocchi digitali e alla citazione dei cobot cinesi che ormai più di un anno fa apriva all’orientalismo la prima pubblicazione destinata a fungere da forza di occupazione del perimetro di dibattito e confronto, diamo uno sguardo ravvicinato alla seconda.
La formulazione scelta dal marketing è agghiacciante, perché demagogica.
La scuola è infatti una branca della pubblica amministrazione e come tale deve seguire procedure e modalità esecutive e decisionali attente a garantire sia coloro che le attuano sia coloro che le subiscono. E quindi fare i conti con tutta la normativa che la riguarda, non solo con l’indice del libro di testo trascritto come progettazione didattica e con il gruppo WhatsApp “Genitori1”.
A rendere il tutto insopportabile non è soltanto l’ottusità che contraddistingue molti – troppi! – dirigenti e funzionari. O il bizantinismo di formulari, moduli e altre compilande amenità inseriti a vario titolo negli interstizi dell’inerzia progettuale dei collegi dei docenti e nelle crepe dell’autoritarismo di quei DD.SS. che hanno dimenticato di essere in una istituzione della Repubblica e non in un’azienda a conduzione personale.
Ha grandi colpe lo snobismo di tutti coloro che considerano esaurita la propria attività, le proprie responsabilità e – ahimé! – i propri diritti a quanto erogato con la (e spesso dalla) cattedra. E non conoscono nemmeno a grandi linee il contratto di lavoro di settore, che per altro giudicano pessimo e peggiorativo da ogni punto di vista.
Bene, a tutti costoro diamo ancora una volta un amichevole consiglio: anche se sul gruppo WhatsApp del vostro dipartimento l’epidemica pignoleria disciplinare vi invita a declinare le minuzie della vostra “materia”, considerate di imparicchiare a usare non tanto i generatori di quiz, quanto i dispositivi che “leggono” e “schedano” documenti. Chissà che dialogare con questi assistenti verificando il senso e il valore dei loro prodotti non vi aiuti a conoscere davvero e a discutere con consapevolezza non solo il contratto di lavoro, ma il regolamento europeo in materia di intelligenza artificiale, il documento “An ed-tech tragedy? Educational technologies and school closures in the time of COVID-19” (652 pagine contro “il digitale” e a favore dell’insegnamento “umano”, una vera leccornia) e così via.