Un allenatore per la scuola italiana
Ho seguito come molti italiani lo straordinario percorso della pallavolo maschile ai tempi di Velasco, non solo per le vittorie, ma anche per il modo di gestire ( scrivo gestire e non solo allenare) le squadre.
Il mio interesse è cresciuto per questo personaggio quando, ritiratosi dalle competizioni, ha cominciato a fare l’opinionista, il conferenziere e il consulente sulla gestione dei gruppi di lavoro e sul ruolo del coach di una squadra aziendale o sportiva che fosse.
Mi ha colpito in particolare la risposta data già molti anni fa in un’inchiesta televisiva ad un giornalista preoccupato della sfrenata passione dei ragazzi per i videogiochi.
Velasco, per spiegare il perché i ragazzi stanno attaccati ore e ore alla console, gli fece notare che quando sbagli in un videogioco devi tu stesso trovare il modo di capire come trovare il modo per superare l’ostacolo e così salire di livello imparando dagli errori e riprovando in un modo diverso.
La soddisfazione, la parte ludica se vogliamo, sta proprio nell’ affrontare la difficoltà e nell’essere stati capaci di avercela fatta da soli da qui la voglia di continuare . Quando sbagli o il tuo avatar muore , diceva Velasco, il videogioco non ti giudica, non viene fuori una scritta lampeggiante del tipo “ sei stato incapace” o non sei stato sufficientemente bravo”, il videogioco non dice nulla , ti mette alla prova nuovamente, ti sfida continuamente. Il merito di chi gioca sta nell’aver imparato a superare gli ostacoli, di ’essere diventato capace di farcela.
Come insegnante e poi come dirigente ho trovato questa riflessione di Velasco straordinariamente illuminante per spiegare in modo semplice cosa debba fare l’insegnante e cosa sia l’apprendimento al di là dei saggi letti , dei corsi e corsi di formazione, di indicazioni nazionali e Linee guida che tentano di spostare l’asse metodologico della scuola italiana dall’insegnamento all’apprendimento e tentano di ridefinire i ruoli facendo dello studente il vero soggetto attivo della lezione.
Nella scuola del terzo millennio posso constatare seguendo i nuovi docenti che devono sostenere il concorso, che è ancora largamente usato il metodo classico del “io ti spiego” e “tu rispondi”.
Non facciamo scoprire agli studenti la poetica di Pirandello, ma gliela spieghiamo noi docenti oppure facciamo vedere un bel filmato di YouTube di 2- 3 minuti, magari a fumetti su Pirandello con buona pace dell’educazione digitale. E’ come spiegare a parole un dipinto senza mai farlo vedere.
Il “laboratorio” è visto ancora troppo spesso semplicemente come un luogo attrezzato ora in modo multimediale, non come un una metodologia , come in realtà dovrebbe essere, con cui gli studenti scoprono la conoscenza in aula o in qualsiasi altro luogo utilizzando gli strumenti di indagine della disciplina, sbagliando e riprovando per poi imparare per la vita come si fa.
Velasco indirettamente parlando di videogiochi ci fa capire un’altra verità importante per la scuola. Il desiderio di essere promossi nei nostri studenti non è alimentato dal fatto che nella classe successiva puoi imparare nuove conoscenze della disciplina, puoi imparare nuove modalità per risolvere problemi o diventare più capace in qualcosa , non è il desiderio di diventare più competente a motivare lo studio per la “promozione”, ma la paura di essere bocciato e considerato incapace oppure il miraggio di un premio come avere in regalo un nuovo smartphone o il motorino.
Come sarebbe più motivante una scuola in cui lo studente non è semplicemente “promosso” all’anno successivo dal consiglio di classe, ma in cui possa passare al livello successivo del curricolo disciplinare quando è stato in grado con le proprie forze e con l’aiuto dei docenti a guadagnare tutte le competenze necessarie ad esplorare il livello successivo della disciplina scoprendo nuove conoscenze e acquisendo nuove abilità.
Una scuola in cui è lo studente che “si promuove” da solo , lo studente può dire di avercela fatta con le sue forze come nel videogioco.
C’è un’altra considerazione di Velasco sullo sport che mi sembra molto calzante per la scuola e che Walter Veltroni riporta in bell’articolo sul Corriere del 10 agosto sugli allenatori che rendono possibile agli atleti di una squadra di dare il meglio di se stessi coltivando la loro autostima e sostenendoli nei sacrifici.
“Non è che giochiamo di squadra – riporta Veltroni da una chiacchierata con Velasco – perché siamo poco egoisti , perché siamo buoni, perché ci piace stare con gli altri . Giochiamo di squadra perché è più efficiente, perché si rende di più. Anche perché siamo meno soli nei momenti difficili”.
Io credo che nella scuola non si abbia consapevolezza del ruolo e dell’importanza del gruppo classe nell’apprendimento. Il cooperative learning è una tecnica didattica che può essere utilizzata per svolgere diverse attività, ma l’essere una classe va oltre il cooperative learning , vuol dire essere una squadra che deve essere capace di collaborare non solo durante il cooperative learning, ma in qualsiasi attività per poter imparare , più impara il gruppo più e meglio imparano i singoli.
Nel gioco di squadra non vince il singolo, ma la squadra. La promozione non è una questione individuale, ma riguarda la classe nel suo insieme.
L’inclusione non è un principio morale, ma una necessità operativa se la classe è una squadra.
Il docente non può pensare agli studenti solo come individualità , ma come membri di una squadra le cui dinamiche, i cui stili di apprendimento, i cui bisogni speciali hanno bisogno di essere gestiti in modo da creare una rete interattiva. Il peer tutoring non è una modalità da utilizzare al bisogno, ma una delle modalità di collaborazione.
Chiudo con un’altra riflessione di Velasco che Veltroni ha raccolto prima della finale delle Olimpiadi di quest’anno.
“La pallavolo e il giornalismo devono smettere di parlare dell’oro che manca, è deleterio per tutti. Si vede sempre quello che manca , è uno sport tutto italiano, l’erba del vicino è sempre più verde. E’ una filosofia di vita, ma l’oro olimpico quando arriverà, arriverà.[…] godiamoci “ quello che abbiamo, e non quello che non abbiamo, poi è chiaro che daremo tutto quello che abbiamo per fare di più”.
A me viene una riflessione sulla mania del voler infilare a forza il “merito” nella scuola. come competizione.
Parafrasando Velasco è vero che gli studenti daranno tutto quello che hanno per fare di più, ma se non li assilliamo con il mito del successo a tutti i costi , ma se riusciremo a motivarli e a sostenerli nella loro fatica di imparare lasciando che loro siano i protagonisti dei loro successi.
A proposito, vista la medaglia d’oro, Velasco aveva proprio ragione!
Come scrive Veltroni , Velasco “trasmette carisma e saggezza, equilibrio e passione.” I nostri docenti possono fare altrettanto? Penso di sì, se si accorgono e se si rendono conto finalmente di essere i coach di squadre di potenziali talenti da “allenare” e non di studenti da istruire.