Inclusione e disabilità: il garbuglio degli educatori
di Raffaele Iosa
Alcune decine di migliaia di educatori scolastici impegnati nell’ inclusione degli alunni e studenti con disabilità ai sensi dell’art. 13 della Legge 104/92, con le diverse denominazioni date dalle diverse regioni, sono alle prese in questi giorni in un’affannosa rincorsa alla loro “legittimazione formale” nel processo di costituzione del c.d. “albo degli educatori” previsto da una recentissima legge che ne istituisce un apposito albo delle diverse professioni socio-educative.
Il tutto in pochissimi giorni, e con poca chiarezza su tutto. Ricapitolo a grandi linee la faccenda, di cui troppo poco si sa.
La Legge 104/92 all’art. 13 prevedeva che a fianco degli insegnanti fossero attivi dei professionisti cosiddetti “assistenti all’autonomia e alla comunicazione”.
Ma non solo: di questi si sarebbe dovuto costruire un “profilo professionale” e ovviamente un curriculum accademico corrispondente. In questi 32 anni (trentadue!) non è accaduto nulla di legislativo che definisse formalmente questa figura professionale nelle scuole. E questo anche per conflitti tra le associazioni che tutelerebbero la disabilità, il disinteresse dei sindacati e l’incertezza dei diversi enti regionali e locali cui è assegnata effettivamente la responsabilità gestionale di questa professione secondo il processo di autonomia regionale nato a fine del secolo (modello Bassanini). Fin qui una storia molto italiana.
Col tempo il termine più utilizzato nel definire queste figure è diventato “educatori professionali”, e da una ventina d’anni esiste una laurea universitaria apposita , la L 19, che ha un curricolo molto pertinente dedicato a questa professione inclusiva.
Ma in questi 30 anni sono entrati come assistenti (o educatori che dir si voglia) anche professionisti con le più varie formazioni, persino con il solo diploma di scuola secondaria superiore. Dimostrando la confusione culturale di quale professione sia, in primis se di tipo “assistenzialistico” o pedagogico in senso stretto.
Col tempo per la definizione di “educatore” una Legge del 2017 comunque meglio preciserebbe la pertinenza tra l’inclusione scolastica e la formazione universitaria di questi educatori. E da qui il busillis di chi debba appartenere o no all’albo di cui sopra.
Ma la “confusione” ormai patologica sul ruolo di questi professionisti è esplosa con clamore ormai a causa del fatto che il loro numero in venti anni è letteralmente esploso, da poche migliaia alla fine degli anni 90 ai quasi 100.000 di questi ultimi anni.
E l’esplosione è figlia dell’enorme aumento di certificazioni di disabilità, quadruplicate in 30 anni e il diffondersi di nuove “disabilità” tra cui lo spettro autistico in primis. Dunque è toccato agli enti locali e alle regioni prendersi il carico di assumere questo personale, con una tattica amministrativa quanto mai velenosa e che sta inquinando molto delle politiche sociali locali: quella degli “appalti” alle cooperative del terzo settore.
Ma ormai la radicata presenza degli educatori come indispensabili per una dignitosa inclusione renderebbe necessario pensare ad una loro collocazione professionale dentro l’amministrazione dello Stato, come si è prospettato da alcuni disegni di legge ancora in discussione che sono però anch’essi rallentati da molte divergenze politiche. Eppure 30 anni fa lo Stato aveva assunto tutti i bidelli comunali in una sola volta! Senza voler fare classifiche, anche un educatore per lavorar bene dovrebbe avere un salario dignitoso e una funzione professionale “di squadra” con tutti i professionisti educativi. Ma c’è di peggio: in questa caotica fase di incertezza sul destino gestionale, i costi per gli enti locali, ormai le difficoltà a trovare professionisti con una formazione adeguata sta diventando un’emergenza.
In questa emergenza l’invenzione dell’albo senza una riflessione più compiuta sulla funzione di questi educatori pare quasi una presa in giro.
Ma c’è di più e più grave: questi educatori sono oggi in buona parte laureati, sono spesso più stabili degli insegnanti di sostegno, il loro salario supera di poco i 1.000 euro al mese (se va bene), il trattamento non è simile a quello dei docenti, per cui durante l’estate questi educatori o sono utilizzati nei diversi CRE estivi in cui vi siano disabili o perdono parte del salario, anche se titolari di contratti a tempo indeterminato.
Devo ammettere che ho molta simpatia per questi ragazzi e ragazze professionisti dell’inclusione, impegnati ogni giorno vicino ai nostro bambini e ragazzi con disabilità, spesso più competenti e più affidabili di molti insegnanti di sostegno senza titolo. Una professione peraltro a modo suo bellissima: l’educatore non dà voti, non dà compiti per casa, è vicino agli insegnanti e simile a loro per quanto riguarda i curricoli accademici, ma è in primis “dalla parte dei ragazzi con disabilità”.
In questa estate torrida dove ci sarebbe ben altro da fare per l’inclusione scolastica, e dove si “inventano” sgangherati corsi di formazione per nuove migliaia di posti di sostegno, perfino per quelli con corsi svolti all’estero, l’attenzione invece per queste figure degli educatori è bassa, e grande è la confusione tra difficoltà e incertezze, con poca cura per una migliore visione educativa dell’inclusione che abbia uno spirito di “squadra” di tutti gli operatori dell’educazione. Tutto questo mentre fioriscono molti interessi corporativi per illudere questi ragazzi e ragazze di buona volontà. Si pensi a questo proposito alle decine di “scuole di specializzazione private” fiorite a seguito della medicalizzazione ideologica degli ultimi anni con titoli bizzarri di vaga valenza accademica. E che non si sa se un giorno avranno mai valore legale per avere un lavoro riconosciuto. Che tristezza.