di Marco Guastavigna
Anche sull’ultimo provvedimento del ministro (divieto assoluto di uso dei cellulari) non si riesce ad andare oltre la polarizzazione.
Sono contrario per principio e storia personale e professionale a ogni divieto, ma non posso fare a meno di scrollarmi di dosso questo approccio e di riflettere sul fatto che la tendenziale complessità (che è un pregio) delle attività di apprendimento dovrebbe far propendere per una macchina ergonomicamente adeguata per dimensioni di tastiera e schermo e postura suggerita/richiesta, ovvero un PC desktop (sempre più rari) o laptop.
Qualche tempo fa, anzi, avevo proposto una sommaria classificazione, che riprendo:
Ricordo per altro i tempi del lockdown, in cui presso molti si diffuse l’illusione che i tablet potessero essere la soluzione più congruente con il contesto emergenziale. A quasi nessuno vennero invece in mente i personal computer a basso costo, magari con un sistema operativo non proprietario.
Entrambi gli approcci sono esempi lampanti di ignoranza di merito. Ignoranza che non è “tecnica” e settoriale, ma professionale e generale. E così cittadini adulti ignoranti formano all’ignoranza giovani cittadini ignari.
È l’ignoranza che porta a pubblicare documenti contro la formazione e le dotazioni del PNRR sul campione del capitalismo digitale (Google drive, per altro detto confidenzialmente “drive”), a registrare interviste al limite dell’eversione (retorica, of course) su YouTube (a sua volta branca di Alphabet e dispositivo a vocazione estrattiva), a condividere dibattiti infuocati mediante dirette-Facebook (altro esponente della messa a valore bio-politica e culturale).
È la medesima ignoranza che ha assistito imbelle al trasferimento della logistica dell’istruzione e della formazione sulle piattaforme BigTech, rifugiandosi in un mantra a sua volta illusorio: “In fondo sono strumenti, gli effetti dipendono da come li si usa”.
E qui siamo arrivati al vulnus culturale (e politico!) fondamentale, che si perpetua per colpa di un diffuso disimpegno, superficiale, snobistico e sempre più ingiustificato.
Ciò che fronteggiamo e a cui ci esponiamo tutte le volte che entriamo e agiamo a qualsiasi titolo nel moderno mercato dell’istruzione (che per altro comprende anche libri, quaderni, penne a sfera, lavagne di ardesia e così via) non sono affatto “strumenti”, ovvero apparati a complementarità nulla.
Sono piuttosto dispositivi socio-tecnici per l’estrazione e l’accumulazione di valore mediante cattura della conoscenza condivisa e monetizzazione diretta e indiretta, a complementarità attiva, capaci di influenzare profondamente – e spesso di dominare – contesti, attori, esiti, feedback delle situazioni in cui intervengono.
Che lungaggine! Quante complicazioni!
Tocca pure rileggere un paio di volte per capire tutto, per esempio il fatto che le versioni free dei chatbot generalisti estraggono valore dal perfezionamento implicato dalle conversazioni mentre quelle plus richiedono il pagamento di abbonamenti/crediti.
Oppure che i “motori di ricerca” più noti sfruttano il consumo informativo per profilare gli utenti e lucrare sul marketing.
O ancora che la cosiddetta “intelligenza artificiale” agisce su base statistico-induttiva, avendo esplicitamente rinunciato all’impostazione logico-deduttiva, perché in questo modo valorizza gli investimenti economici che le garantiscono la potenza di calcolo e l’impossessamento di enormi quantità di dati da cui sgorga la capacità predittiva, decisionale e generativa, mediante cattura della conoscenza diffusa e disponibile per la computazione. Corollario di questa acquisita consapevolezza, è il fatto che – forse – “intelligenza” è una formulazione destinata al marketing e all’innesco di discussioni sui massimi sistemi (coscienza, intenzione, singolarità, post-umanesimo…) che tanto piacciono a coloro che hanno fretta di (far) dimenticare il micro-lavoro di addestramento affidato al Sud globale da parte di un Nord globale dominato da oligopoli ormai quasi naturalizzati.
Potrei continuare, ma preferisco mettere in guardia da alcune implicazioni di questa campagna di auto-disinformazione a proposito dell’universo digitale che dura da decenni:
- si usano formulazioni vaghe e imprecise, che possono diventare fuorvianti (il già citato e confutato “strumenti”);
- mancano lessico e concettualizzazioni autenticamente professionali, sostituiti spesso da espressioni confuse e confusive (“drive”);
- si impiegano concetti non autenticamente padroneggiati (“intelligenza artificiale”) e molto probabilmente con significati diversi per i diversi attori; questo rischio è particolarmente grave nelle istituzioni scolastiche che si accingono a mettersi in gioco in “curvature” e altre amenità curricularizzanti, destinate a fornire agli studenti “competenze per il futuro”;
- si utilizza una deleteria gerarchia delle conoscenze e delle capacità necessarie per “insegnare”, che privilegia la (rassicurante) tradizione professionale, giudicandola assolutamente sufficiente per comprendere l’innovazione, impedendosi di conseguenza di cogliere e contrastare davvero gli aspetti di distruzione creatrice di quest’ultima, in campo etico, politico, culturale e cognitivo.
Soprattutto, si assume l’unicità della cultura e dell’operatività digitali, considerate coincidenti con le tecnologie estrattive, quando invece non è così e vi sono visioni e pratiche alternative, il cui approccio conviviale sarebbe più coerente con le attività di una scuola che avesse davvero conservato la sua vocazione critica ed emancipante.