di Antonella Mongiardo Una domanda semplice, in apparenza, che negli anni ha attraversato correnti di pensiero diverse e, talora, contrapposte, fino a giungere, in tempi recenti, ad interpretazioni restrittive e fuorvianti che identificano la laicità con assenza di religione nelle scuole. Cos ‘è, ad ogni modo, la laicità? Qual è il suo significato nella scuola? La risposta, nel significato letterale, la troviamo nei dizionari. Secondo la Treccani, laico è chi non fa parte del mondo clericale. Lo stato laico è quello che riconosce l’eguaglianza di tutte le confessioni religiose, senza concedere particolari privilegi o riconoscimenti ad alcuna di esse, e che riafferma la propria autonomia rispetto al potere ecclesiastico”. Il laicismo, quindi, si identifica con una concezione più ampia e complessiva della cultura e della vita civile, basata sulla tolleranza comprensiva delle credenze altrui, sul rifiuto del dogmatismo in ogni settore della vita associata, anche al di là dell’influenza diretta dell’istituzione religiosa dominante. In una realtà sociale come quella di oggi, dove il cedimento dei valori etici e l’affermazione di nuovi stili educativi, talvolta discutibili, interferiscono spesso con l’azione formativa della scuola, è sempre più arduo realizzare quell’auspicata corresponsabilità educativa tra scuola e famiglia, che dovrebbe essere la base dello sviluppo identitario dei giovani. Le nuove generazioni stanno crescendo in un’epoca in cui si fa sempre più sfocato il confine tra i ruoli e le responsabilità, con una conseguente perdita di autorevolezza, sia della scuola sia della famiglia, che devono essere, invece, i due più importanti avamposti pedagogici della società. E’ proprio nella prospettiva di un recupero di valori e di una più forte alleanza tra scuola e famiglia che si inserisce la dimensione sociale dell’elemento religioso nella scuola. Condivido le acute osservazioni del matematico Piero Del Bene, quando sostiene che, se laicità significasse assenza di religione, allora nella scuola laica non dovrebbero trovare posto il cattolicesimo di Manzoni e di numerosi altri autori della letteratura italiana, non si dovrebbe studiare la divina commedia di Dante e non si dovrebbero visitare chiese, né ammirare le rappresentazioni sacre attraverso i libri di storia dell’arte o durante le gite scolastiche. Invece, sappiamo bene che le discipline umanistiche traboccano di cultura cattolica; l’arte, la filosofia, la musica, sono ambiti in cui il cattolicesimo ha lasciato la sua impronta indelebile. La cultura religiosa fa parte, a pieno titolo, della formazione scolastica. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che essa permea tutta la nostra tradizione culturale, la nostra società, i nostri valori e i nostri linguaggi. D’altro canto, basti dire su tutto una sola cosa: l’insegnamento della Religione cattolica è una disciplina istituzionale, presente nella scuola pubblica e affidata spesso a religiosi approvati dall’autorità ecclesiastica. Un insegnamento che, pur nell’avvicendarsi di governi e diverse forme di Stato, non è mai venuto meno. Dall’unità d’Italia ad oggi, questa particolare disciplina è sempre stata parte integrante del progetto educativo dell’istruzione nazionale. E’ evidente, peraltro, il senso della sua presenza nella scuola. Nell’ambito della sfera prettamente didattica, eliminare la religione cattolica significherebbe svuotare la nostra cultura, dal momento che il patrimonio culturale e artistico del nostro Paese custodisce tesori inestimabili in gran parte a tema cattolico-cristiano; e significherebbe snaturare la nostra stessa identità storica, che si è forgiata, nel corso dei secoli, a stretto contatto con la dottrina cattolica. Come viene specificato anche nella normativa scolastica, la conoscenza delle radici storiche della religione cattolica “svolge un ruolo fondamentale e costruttivo per la convivenza civile, in quanto permette di cogliere importanti aspetti dell’identità culturale di appartenenza e aiuta le relazioni e i rapporti tra persone di culture e religioni differenti”. E che dire, poi, della valenza educativa dell’insegnamento religioso? I principi ispiratori della religione cattolica, improntati al rispetto del prossimo, alla solidarietà e alla pace, rappresentano un faro nell’azione educativa della scuola, la quale, andando oltre i traguardi cognitivi connessi all’acquisizione di saperi disciplinari, tende alla formazione globale dello studente, alla sua crescita personale e sociale. Come scrive la Congregazione per l’educazione cattolica nella lettera n°520/2009: “Ai fanciulli e ai giovani va garantita la possibilità di sviluppare armonicamente le proprie doti fisiche, morali e intellettuali; essi vanno anche aiutati a perfezionare il senso di responsabilità, ad imparare il retto uso della libertà, e a partecipare attivamente alla vita sociale (cfr c. 795 Codice di Diritto Canonico [CIC]; c. 629 Codice dei Canoni delle Chiese Orientali [CCEO]). Un insegnamento che disconoscesse o emarginasse la dimensione morale e religiosa della persona opporrebbe un ostacolo insormontabile per una educazione completa, perché «i fanciulli e i giovani hanno il diritto di essere aiutati a valutare con retta coscienza e ad accettare con adesione personale i valori morali”. In definitiva, si pur dire che Laicità non significa assenza di religione. E non potrebbe del resto significare assenza di religione nella scuola, se l’insegnamento della religione cattolica viene istituito dallo Stato come garanzia di laicità. A riprova di ciò, difatti, nella normativa scolastica, l’unico riferimento esplicito alla laicità della scuola lo si rinviene nelle Indicazioni Nazionali del curricolo, laddove si parla dell’Insegnamento della Religione Cattolica, ma non per limitarla, bensì per salvaguardare il diritto dell’alunno a non avvalersene, facendo risaltare così l’effettivo significato della laicità nella scuola. Una laicità che non si adagia nell’indifferenza verso i valori religiosi, ma che, al contrario, rafforza la funzione educativa della scuola, rivolta anche al rispetto delle scelte e all’integrazione di differenti culture. “La Scuola Italiana – si legge nelle Integrazioni alle Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione – si avvale della collaborazione della Chiesa cattolica per far conoscere i principi del cattolicesimo a tutti gli studenti che vogliano avvalersi di questa opportunità. L’insegnamento della religione cattolica (Irc), mentre offre una prima conoscenza dei dati storico-positivi della Rivelazione cristiana, favorisce e accompagna lo sviluppo intellettuale e di tutti gli altri aspetti della persona, mediante l’approfondimento critico delle questioni di fondo poste dalla vita. Per tale motivo, come espressione della laicità dello Stato, l’Irc è offerto a tutti in quanto opportunità preziosa per la conoscenza del cristianesimo, come radice di tanta parte della cultura italiana ed europea. Stanti le disposizioni concordatarie, nel rispetto della libertà di coscienza, è data agli studenti la possibilità di avvalersi o meno dell’Irc”. Dal punto di vista pedagogico, dunque, la presenza della Religione cattolica nella scuola va vista come un contributo, in coordinamento con le altre discipline, alla formazione complessiva dell’identità di ciascuno. Ma il significato “laico” dell’insegnamento religioso nella scuola ha anche un fondamento giuridico. Il principio di laicità dello Stato, così come delineato nella giurisprudenza costituzionale, è la sintesi di più disposizioni costituzionali, ossia degli artt. 2-3, 7-8, 19 e 20 Cost., ove assume un ruolo centrale “la salvaguardia della libertà religiosa in regimedi pluralismo religioso e culturale” (Corte cost., sent. n. 203 del 1989). L’Irc è presente nella scuola italiana in virtù dell’art.7 della Costituzione, sorto dall’accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana, per garantire, in regime di pluralismo religioso (art.8), l’insegnamento della cultura religiosa nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado. E’ da questa norma che discende il fondamentale principio di laicità: lo Stato, senza essere indifferente rispetto alle religioni, deve garantire a tutte pari libertà. L’Irc si inserisce così, a pieno titolo, “nel quadro delle finalità della scuola”. Lo Stato italiano riconosce “il valore della cultura religiosa”, dichiarando di tener conto del fatto che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” (art. 9.2). La finalità principale della scuola, che l’Irc assume come propria, non può essere altra da quella desumibile dalla Costituzione e dalla legislazione scolastica, cioè lo sviluppo della persona umana, senza distinzioni di sorta, neanche di carattere religioso (art. 3 Cost.). E, in seguito, con l’Accordo del 1984 viene aggiunto che l’accesso all’Irc avviene sulla base di una libera scelta, che ognuno è chiamato ad operare. Il principio della libertà di scelta viene richiamato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n°203/1989: “Lo Stato è obbligato, in forza dell’Accordo con la Santa Sede, ad assicurare l’insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo: solo l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo. Per quanti decidano di non avvalersene, l’alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della libertà costituzionale di religione”. E, a proposito della non obbligatorietà di seguire corsi alternativi all’insegnamento della religione cattolica, viene puntualizzato nella sentenza della Corte costituzionale n°13/1991: “Alla stregua dell’attuale organizzazione scolastica è innegabile che lo “stato di non-obbligo” può comprendere, tra le altre possibili, anche la scelta di allontanarsi o assentarsi dall’edificio della scuola”. Orbene, alla prima domanda, posta come incipit di questo articolo, ne segue inevitabilmente un’altra. Si può pregare o celebrare atti di culto nelle scuole? La risposta arriva dal Consiglio di Stato, che, con sentenza n.1388 del 27 marzo 2017, riconosce la possibilità delle benedizioni religiose a scuola in orario extrascolastico. Nel contempo, però, il CdS pone dei limiti ben precisi all’attività di culto nella scuola, conciliando il principio di laicità della scuola con la libertà di partecipazione ad iniziative culturali o di espressione religiosa e garantendo l’autorevolezza dell’esercizio dell’autonomia scolastica. La vicenda vede protagonista il Consiglio di Istituto di un I.C. di Bologna che, nel febbraio del 2015, concedeva i locali scolastici a tre parroci per le benedizioni pasquali in orario extrascolastico. L’iniziativa era rivolta agli alunni, i quali liberamente potevano parteciparvi, accompagnati da un adulto per la vigilanza. La parte ricorrente adduceva che tale misura non preservava la laicità della scuola pubblica. Il Tar accoglieva il ricorso facendo leva sul “principio costituzionale della laicità o non confessionalità dello Stato”, e dell’ “equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose”. Si legge nella sentenza del Tar: “Non v’è spazio per riti religiosi riservati per loro natura alla sfera individuale dei consociati, mentre ben possono esservi occasioni di incontro che su temi anche religiosi consentano confronti e riflessioni in ordine a questioni di rilevanza sociale, culturale e civile, idonei a favorire lo sviluppo delle capacità intellettuali e morali della popolazione, soprattutto scolastica, senza al contempo sacrificare la libertà religiosa o limitare le relative scelte”. Il primo Giudice affermava, inoltre, che “un’invalicabile linea di confine sia a tali fini costituita dalla circostanza che si tratti o meno di un atto di culto religioso”, e che nel caso in esame, al contrario, sarebbe stato «autorizzato un vero e proprio rito religioso da compiersi nei locali della scuola e alla presenza della comunità scolastica, sì che non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 96, comma 4, del d.lgs. n. 297 del 1994, e neppure quella di cui al successivo comma 6, riferito al ben diverso ambito di iniziative di socializzazione e stimolo della maturazione degli studenti per “fronteggiare il rischio di coinvolgimento dei minori in attività criminose”. Il Consiglio di Stato, invece, riformando la sentenza di primo grado, precisa nel dispositivo che “tale rito – avvenuto a scuola ma in orario non scolastico – va accolto al pari di un’attività parascolastica e che la natura religiosa dell’evento non può ritenersi un elemento discriminatorio”. Si riporta il passaggio conclusivo della sentenza del CdS, la cui pronuncia assumeva ormai carattere soltanto morale, il cui unico effetto, ora per allora, avrebbe potuto avere il solo effetto di costituire anche un precedente. “Com’è noto, la benedizione pasquale è un rito religioso, rivolto all’incontro tra chi svolge il ministero pastorale e le famiglie o le altre comunità, nei luoghi in cui queste risiedono, caratterizzato dalla brevità e dalla semplicità, senza necessità di particolari preparativi. Il fine di tale rito, per chi ne condivida l’intimo significato e ne accetti la pratica, è anche quello di ricordare la presenza di Dio nei luoghi dove si vive o si lavora, sottolineandone la stretta correlazione con le persone che a tale titolo li frequentano. Non avrebbe senso infatti la benedizione dei soli locali, senza la presenza degli appartenenti alle relative comunità di credenti, non potendo tale vicenda risolversi in una pratica di superstizione. Tale rito dunque, per chi intende praticarlo, ha senso in quanto celebrato in un luogo determinato, mentre non avrebbe senso (o, comunque, il medesimo senso) se celebrato altrove; e ciò spiega il motivo per cui possa chiedersi che esso si svolga nelle scuole, alla presenza di chi vi acconsente e fuori dall’orario scolastico, senza che ciò possa minimamente ledere, neppure indirettamente, il pensiero o il sentimento, religioso o no, di chiunque altro che, pur appartenente alla medesima comunità, non condivida quel medesimo pensiero e che dunque, non partecipando all’evento, non possa in alcun senso sentirsi leso da esso. Deve quindi concludersi che la “benedizione pasquale” nelle scuole non possa in alcun modo incidere sullo svolgimento della didattica e della vita scolastica in generale. E ciò non diversamente dalle diverse attività “parascolastiche” che, oltretutto, possono essere programmate o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole scuole anche senza una formale delibera.
- È appena il caso di rilevare che non può logicamente attribuirsi al rito delle benedizioni pasquali, con le limitazioni stabilite nelle prescrizioni annesse ai provvedimenti impugnati, un trattamento deteriore rispetto ad altre diverse attività “parascolastiche” non aventi alcun nesso con la religione, soprattutto ove si tenga conto della volontarietà e della facoltatività della partecipazione nella prima ipotesi, ma anche che nell’ordinamento non è rinvenibile alcun divieto di autorizzare lo svolgimento nell’edificio scolastico, ovviamente fuori dell’orario di lezione e con la più completa libertà di parteciparvi o meno, di attività (ivi inclusi gli atti di culto) di tipo religioso.
- Resta da verificare se i provvedimenti impugnati siano espressione di una determinata potestà, riconducibile ad una categoria rispondente al normale principio di tipicità degli atti amministrativi.