Cattedra inclusiva tra utopia e realtà
Sono già intervenuto sull’argomento e non voglio ripetermi. Desidero però fare alcune osservazioni prendendo spunto dalla piega che sta prendendo il dibattito, perché temo che si rischi di perdere di vista il nocciolo del problema per il quale è stata fatta la proposta di legge.
Se si vuole raccogliere dei consensi o dei contributi di riflessione su una proposta e trovare eventualmente le giuste mediazioni, bisogna che sia chiaro il problema che si affronta e l’obiettivo che si vuole raggiungere vedendo ciò che è più funzionale e ciò che lo è meno nella proposta e nelle obiezioni.
In caso contrario qualsiasi discussione prende la piega di un’esternazione di punti di vista in base al proprio umore o peggio dei propri orientamenti ideologici condivisibili o meno facendo naufragare ciò che di positivo è possibile fare utilizzando la suggestione della proposta.
LA “GRANDE MALATTIA”
Il fatto che le “certificazioni” siano aumentate è sicuramente un dato certo come scrive Raffaele Iosa in “Il declino dell’inclusione scolastica. Cambiare radicalmente rotta?”
Io però non sono del tutto d’accordo nel credere che sia il frutto di una generalizzata volontà di medicalizzare le difficoltà di apprendimento.
Le difficoltà di apprendimento esistono indipendentemente che siano o meno certificate così come esistono gli stili di apprendimento e i bisogni più o meno “speciali” e riguardano tutti gli studenti.
L’esplosione della “grande malattia” ha per me un’origine diversa da una generica volontà di medicalizzare i comportamenti degli alunni.
La “grande malattia” non è la causa del problema del “declino dell’inclusione” bensì un effetto.
Andare più a fondo di questo effetto permette di definire meglio il problema e individuare qual è effettivamente l’obiettivo da raggiungere.
Io penso e credo che vi siano stati due approcci diversi che hanno favorito il proliferare delle certificazioni: quello dei genitori e quello dei docenti e non sono due atteggiamenti “culturali”, ma partono da esigenze molto concrete.
Diverse famiglie hanno visto nella certificazione, ovviamente nei casi di disabilità non grave, un mezzo attraverso il quale poter chiedere alla scuola di prendersi cura dell’apprendimento del proprio figlio perché la certificazione impone per legge degli obblighi ai docenti.
In altre parole si tratta della richiesta ai docenti di dichiarare quali sono gli impegni che si prendono perché molte famiglie hanno perso fiducia nel fatto che la scuola si impegni realmente in questo.
Leggere il PTOF, le presentazioni delle attività, i progetti va bene, ma il genitore di uno studente con qualche difficoltà che si sente responsabile del suo futuro vuol sapere cosa fa la scuola nel concreto per metterlo in grado di imparare.
L’insegnante che dice di aver studiato per insegnare la sua disciplina in realtà ha le idee confuse sulla sua professione e nella comunicazione con le famiglie addossa spesso allo studente la responsabilità di non aver ottenuto la sufficienza per non aver studiato, non aver fatto i compiti e altro mentre lui ha fatto quel che doveva “spiegando” la materia e chiedendo alla famiglia di intervenire sul ragazzo per farlo impegnare di più, poco importa ad esempio se metà classe è insufficiente.
Quante volte si sente nelle assemblee di classe qualche docente che si lamenta di non poter svolgere il “programma” perché è rallentato dalla presenza di molti studenti in difficoltà!
Va ricordato a quel docente che far apprendere vuol dire trovare il modo più adatto a “connettere determinati allievi – aventi le loro esperienze, le loro preconoscenze, i loro stili di apprendimento ecc. – con determinati contenuti culturali, ciascuno caratterizzato da una propria struttura logica e metodologica” (da M. Castoldi).
Il “mestiere” del docente quindi non sta solo nel conoscere la disciplina e “spiegarla”, ma nel saper far apprendere la propria disciplina.
L’utilizzo della certificazione da parte dei genitori per chiedere che la scuola faccia il suo lavoro è ancora più vero a mio parere per gli studenti con DSA, le cui vicende ho seguito da vicino negli anni di servizio, studenti presi troppo spesso per svogliati, indolenti, distratti ecc.
Molte delle associazioni, per quanto mi risulta, sono molto determinate nel non volere che tali studenti vengano medicalizzati ribadendo in tutte le sedi che quelli che sono stati definiti ambiguamente “disturbi specifici” sono in un certo senso degli stili di apprendimento e in quanto tali vanno trattati attraverso una didattica realmente inclusiva come per gli altri stili e non con una didattica speciale, le misure compensative non sono tra queste.
La certificazione per i docenti invece ha, a volte, un significato diverso.
Spesso sono i docenti stessi a sollecitare ai genitori la certificazione immaginando così di aiutare lo studente facendosi autorizzare, grazie alla certificazione intesa come medicalizzazione, a trattarlo in modo diverso dai compagni senza considerare la possibilità di trovare invece una modalità adatta a “compensare” queste difficoltà costruendo una lezione per tutti che permetta a questo studente di apprendere come e con gli altri.
Nessuna legge vieta di utilizzare a discrezione misure compensative o dispensative per tutti gli studenti che abbiano difficoltà in alcune operazioni indipendentemente dalla certificazione.
Quindi andando al sodo, dietro la “grande malattia” vi è un “grande equivoco” che coinvolge in pieno il modo della scuola.
Qualsiasi progettazione didattica parte dalla situazione reale della classe e dei suoi studenti e l’individualizzazione e la personalizzazione non avrebbero bisogno di una certificazione per essere perseguiti nel modo più opportuno perché fanno parte del “lavoro” del docente per “far apprendere” e sono espressione della libertà di insegnamento e dell’autonomia didattica. Le certificazioni al massimo sono uno strumento informativo per meglio progettare l’attività didattica della classe. Ne consegue che la scelta dei metodi e delle tecniche di qualunque natura sono funzionali alla situazione della classe, dei singoli studenti e agli obiettivi da raggiungere. Su questo sono d’accordo con Iosa,
Ma non è quello che la stessa normativa generale chiede da sempre di fare?
Perché questo non è avvenuto e non avviene?
Questo è il vero problema.
E’ vero che i “Bisogni Educativi Speciali” sono spuntati ad un certo punto come un fungo nella normativa, ma a mio avviso, non sono una “trovata” estemporanea del burocrate di turno, ma vanno letti nel senso di una presa d’atto che tutte le indicazioni date a partire dagli anni ‘70 in decreti, circolari, Indicazioni nazionali e note sul compito della scuola di prendersi cura concretamente dei bisogni formativi degli studenti all’interno della propria progettazione attraverso l’individualizzazione e la personalizzazione dei percorsi (il famoso “non uno di meno”) non avevano sortito nulla o poco a livello nazionale al di là delle eccellenze.
Il ricorso all’introduzione di una serie di disposizioni formali e vincolanti di programmazione dell’individualizzazione è stata la risposta “politica”, probabilmente errata, al malumore delle famiglie per una situazione che si era di fatto creata.
Fare il PEI o il PDP però non dà automaticamente la competenza al docente di gestire l’apprendimento in aula di una classe eterogenea. Non è applicando dei protocolli individuali che si crea un contesto favorevole all’apprendimento per tutti, né l’inclusione.
Invece di chiedersi il perché i docenti non riuscivano a fare quello che già la legge prevedeva hanno preferito trovare la scorciatoia dell’obbligo.
Allora ripropongo la domanda, perché tutto questo è avvenuto?
Non tanto per una cattiva volontà dei docenti, ma per una mancata formazione iniziale e in servizio su come fare una didattica inclusiva e su come gestire le difficoltà di apprendimento in una scuola di massa qual è quella voluta dalla Costituzione.
E’ il profilo del docente curricolare che andava cambiato.
Gli insegnanti curricolari, con la scusa dell’autonomia, sono stati lasciati a sbrigarsela da soli a fronte di un contesto profondamente cambiato senza avere gli strumenti per gestire questa complessità. Questo va detto per sostenere la proposta.
IL GRANDE EQUIVOCO DELLA CATTEDRA DI SOSTEGNO
La mancata formazione di tutti i docenti all’inclusione deriva dalla scelta a livello legislativo fatta in occasione dell’abolizione delle classi differenziali di formare solo una parte dei docenti per l’insegnamento agli studenti con disabilità certificata, come se avessero dovuto affiancarli in aula per tutte le ore facendo credere alle famiglie e anche ai docenti curricolari che l’insegnante di sostegno avrebbe risolto tutti i problemi di apprendimento e di inclusione.
La verità è che con l’introduzione del docente di sostegno non si è risolto il problema dell’apprendimento dello studente né dell’inclusione, ma si è messa la solita pezza per nasconderlo.
L’insegnante di sostegno assolve sicuramente ad un ruolo importante, ma non c’è nulla di più eterogeneo della disabilità, ogni alunno ha i suoi bisogni ed è per questo che viene definita una presenza in classe del docente di sostegno diversa da caso a caso, comunque per un numero ridotto di ore rispetto all’orario di lezione completo (aggiungo io, per fortuna), di conseguenza far apprendere gli alunni con disabilità non è un compito esclusivo del docente di sostegno, ma è anche un compito a cui concorre il docente curricolare che non può sottrarsi giacché copre il resto delle ore. Insegnare agli studenti con disabilità fa dunque parte del lavoro del docente curricolare nonostante vi sia una percezione diversa nell’immaginario collettivo.
Questa non è un’opinione, è un dato di realtà da cui partire per trovare una soluzione.
ARRIVIAMO AL PROBLEMA
Un errore strategico questo i cui nodi sono venuti al pettine quando si è cominciato a capire che:
- i bisogni speciali non sono solo quelli degli studenti con disabilità elencati nella legge 104, ma anche altri;
- i bisogni speciali possono essere anche temporanei e di origine sociale;
- anche la presenza di stili di apprendimento diversi richiede un approccio inclusivo all’apprendimento;
- l’inclusione non riguarda gli alunni in difficoltà, ma tutti gli studenti. L’inclusione è la condizione che fa del gruppo classe un dispositivo per l’apprendimento di tutti perché favorisce proprio quel contesto di relazioni positive che permette al docente di connettere i propri allievi con le conoscenze della propria disciplina.
L’inclusione non è semplicemente un “valore” o un “principio” o una buona azione, ma una condizione perché il docente possa fare il proprio lavoro. Va data dunque una rilevanza professionale alla proposta.
Invece di affrontare il problema causato dalla mancata formazione dei docenti curricolari, come si è detto, si è aggiunta la pezza dei BES, da qui il “declino dell’inclusione” è diventato un problema vero e proprio.
La conseguenza di tutto questo è che la scuola è diventa, come scrive Iosa, non una “comunità aperta e creativa, ma triste luogo di para cura protetti da leggi, commi, documenti manualistici, terapie sintomatologiche”.
Ma cosa ci si poteva aspettare da un Ministero che pensa che la governance del sistema delle autonomie sia solo amministrativa e non anche e soprattutto pedagogica e didattica (vedi la mortificazione del ruolo assegnato oggi agli ispettori nonostante quello che sarebbe dovuto essere il loro inquadramento con le nuove norme e la triste fine degli IRRSAE di cui non è rimasto più neppure il ricordo del loro prezioso ruolo nella formazione in servizio e nell’innovazione negli anni d’oro delle sperimentazioni).
La questione centrale per un discorso sull’inclusione è come far sì che un docente curricolare abbia le competenze per affrontare e gestire in modo unitario l’eterogeneità di un gruppo classe.
Tutti dovrebbero aver consapevolezza che la formazione iniziale del docente curricolare non prevede competenze di gestione né degli studenti disabili, né, voglio aggiungere, degli studenti con bisogni speciali ad esempio quelli con DSA, né di come gestire dal punto di vista dell’apprendimento un gruppo eterogeneo di studenti con problematiche e stili diversi in modo unitario.
Se è questo il problema forse varrebbe la penna di lavorare per risolverlo. La proposta di legge sulla cattedra inclusiva oltre ad essere molto suggestiva in che misura può affrontare realmente il problema in mezzo a tanti pregiudizi e fake presenti nell’opinione pubblica?
UNA CATTEDRA INCLUSIVA O UN DOCENTE INCLUSIVO?
La proposta di far acquisire al docente curricolare una preparazione tale (possiamo chiamarla anche specializzazione) da poter affrontare i bisogni speciali dei suoi allievi e la gestione di una classe eterogenea è a mio avviso una risposta funzionale al problema tenendo presente che la formazione è anche carente sul piano delle competenze relative soprattutto alla relazione educativa e alle dinamiche di gruppo che tanto peso hanno nell’inclusione.
Se si vuole dare forza ad una proposta che riesca ad affrontare il problema è meglio puntare sul docente curricolare inclusivo che a mio avviso coinvolgere in modo più chiaro e diretto gli interessati, cioè i docenti curricolari, le famiglie e gli studenti.
Perché un docente su posto comune dovrebbe aver voglia di impegnarsi in un tale cambiamento? Solo per un ideale o perché il cambiamento può anche migliorare le sue condizioni di lavoro attuali e la sua realizzazione professionale? Io credo che possa essere per questo.
Perché le famiglie dovrebbero appoggiare la proposta? Perché può andare incontro alle aspettative di tutte le famiglie un docente preparato a prendersi cura dei propri figli sia che siano fragili, sia talentuosi e che riesca a portare al successo la propria classe.
Un vantaggio per l’insegnante diventa un vantaggio per gli studenti con BES, le loro famiglie e gli studenti che qualcuno definisce “cosiddetti normali” per una gestione più efficace, serena e cooperativa delle dinamiche del gruppo classe che favorisce l’apprendimento di tutti.
In merito alle riserve avanzate da qualcuno sulla reale possibilità di formare tutti i docenti, credo che non possa essere motivo per cassare una proposta. Chi respinge la proposta solo con questi argomenti fa finta di non vedere il problema.
Abbiamo individuato un problema reale all’origine del “declino dell’inclusione” e una soluzione ragionevole e necessaria sul piano professionale che poi valorizza anche il ruolo del docente e può volendo aprire ad una motivata revisione dello stipendio a fronte di un miglioramento della qualità della prestazione.
Il modo di pensare i contenuti e la modalità della formazione in base alle problematiche di attuazione è una responsabilità che, chi di dovere dovrebbe prendersi.
DALL’UTOPIA ALLA POSSIBILITA’
Avere una cattedra unica per il posto comune e per il sostegno con dei docenti che possono essere impegnati nell’uno o nell’altro incarico permetterebbe in teoria una reale flessibilità nell’utilizzo della risorsa e potrebbe affrontare le difficoltà che oggi ci sono nel reclutamento dei docenti di sostegno. Fin qui tutto bene.
I problemi cominciano quado si propone che ciascun docente una volta formato utilizzi il monte ore della propria cattedra inclusiva sui due posti, comune e di sostegno, che comunque rimangono distinti.
Ci si domanda come utilizzare tale flessibilità calandola nell’organizzazione della scuola qual è ora perché possono esserci diversi problemi non di poco conto di cui ho già scritto.
Introdurre l’obbligo di destinare a ciascun docente una parte dell’orario di cattedra sul sostegno e l’altra sulla disciplina a livello di istituto, come vorrebbe la proposta, creerebbe, a mio parere, non poche difficoltà nell’assegnazione dei docenti alle classi e conseguentemente nella possibilità di predisporre un orario dignitoso per tutti (studenti e docenti), nel poter assegnare i docenti in base ai bisogni degli studenti e non con criteri burocratici, senza parlare del poter organizzare le riunioni dei consigli di classe e degli scrutini alla presenza di tutti i docenti che lavorano sulla classe. E poi quante ore per l’uno e per l’altro incarico? Chi lo stabilisce, il dirigente?
Forse una soluzione intermedia più fattibile sarebbe avere un docente curricolare su cattedra inclusiva su tutte le ore del posto comune ed uno sempre con tutte le ore su posto di sostegno con possibilità da studiare una modalità di passaggio da un posto all’altro in base a taluni vincoli anche attraverso procedure interne allo stesso istituto seguendo le necessità della progettualità collegiale, valorizzando così l’autonomia (in realtà che autonomia è un’autonomia che impedisce di utilizzare in modo flessibile le risorse umane!)
Cosa diversa sarebbe se si potesse costituire una sorta di organico dell’autonomia per biennio o per sezione in cui ai docenti con cattedra curricolare con più classi vengano assegnate solo quelle della sezione o del biennio in modo da poter essere impegnati nel completamento dell’orario di cattedra in attività di potenziamento o di sostegno, un organico che può essere arricchito con ulteriori docenti prelevati dalla dotazione di potenziamento di istituto.
In questo caso un docente di cattedra inclusiva potrebbe spendere le sue ore su entrambi i posti senza che questo crei complicazioni organizzative.
Si tratta di utilizzare lo stesso principio dell’organico dell’autonomia questa volta non sulla scuola ma su singole unità operative. In questo modo si formerebbe un’équipe di docenti e le ore di copresenza per il sostegno potrebbero essere gestite dai docenti della sezione o del biennio ad esempio in una riunione collegiale iniziale in base alla situazione delle classi e ai bisogni degli studenti alla stregua di come si fa per le compresenze nei progetti o UdA tenendo ovviamente conto dei vincoli nell’assegnazione del monte ore individuale agli studenti con disabilità.
Questa soluzione risolverebbe anche il problema dei docenti curricolari con 6 o 8 classi per i quali sarebbe difficile accedere ad una cattedra inclusiva con doppio incarico.
Una soluzione che valorizzerebbe certo l’autonomia e il ruolo progettuale dei docenti, ma che andrebbe ben studiata anche in relazione ai vari indirizzi di studio e ai cicli.
Limitarsi a potenziare la formazione dei docenti su posto comune come si è scritto sopra facendone dei docenti inclusi sarebbe già un notevole risultato e un cambio di prospettiva anche culturale riportando al centro l’unitarietà dell’insegnamento e chiarendo il ruolo paritario e complementare del docente di sostegno e di quello curricolare nello sviluppo del curricolo disciplinare e trasversale dello studente.
Anche nel caso di non unire le due cattedre e lasciare la cattedra di sostegno come è ora potrebbe però essere possibile comunque fare ancora qualcosa di più per migliorare la qualità dell’inclusione.
Si potrebbe fare anche del docente di sostegno come del docente curricolare, un docente inclusivo con una formazione ancora più arricchita sul piano psicosociale anche valorizzando nelle graduatorie e nell’accesso gli aspiranti provenienti dalle lauree in scienze pedagogiche costretti a prestare servizio nella scuola tramite il lavoro precario nelle cooperative.
Ciò permetterebbe al docente di sostegno non solo di seguire gli studenti con disabilità, ma di avere una competenza più specifica per coordinare in modo professionale l’azione di inclusione dei consigli di classe in cui opera riservando a questo compito anche una parte dell’orario di cattedra per attività di progettazione, tutoring, consulenza ai docenti e alle famiglie.
Sarebbe l’occasione per assegnare loro la qualifica di “docente esperto” (Legge 79/2022) con relativo ritocco dello stipendio provando a dare un utilizzo più accettabile a tale qualifica perché legata ad un compito specifico rispetto al solo insegnamento uguale per tutti e aprendo la strada all’introduzione di vere e proprie figure di sistema.
Potrebbe essere un incentivo per il reclutamento di risorse motivate con la prospettiva di svolgere un’attività più gratificante, utile e con uno sviluppo professionale.
Anche questo potrebbe essere un “cambio di rotta” significativo e un’idea per la discussione nonostante non coincida perfettamente con la proposta di legge.