Perchè i docenti studiano l’intelligenza artificiale?

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Stefano Penge

Come in ogni occasione in cui qualche strumento viene inventato e proposto sul mercato delle professioni della conoscenza, ancora prima che parta l’ennesimo progetto nazionale per la trasformazione delle classi tradizionali in ambienti innovativi dove gli studenti si preparino alle  le professioni digitali del futuro e il personale scolastico alla transizione digitale, alcuni insegnanti si sentono in dovere di aggiornarsi e di prepararsi al nuovo che avanza. Questo va ovviamente ascritto a loro merito: invece di lamentarsi del tempo perso necessario per imparare a usare questa o quella stravaganza voluta dal ministero, invece di laudare le tecnologie naturali di una volta e rimpiangere le buone vecchie LIM, si lanciano a studiare,  giocare e sperimentare coinvolgendo la famiglia, gli amici e gli studenti. Sono docenti ottimisti, entusiasti, curiosi e insieme coscienziosi.

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Le ragioni di questo interesse didattico sono diverse: dalla difesa dei “nostri” nei  mercati del lavoro internazionali alla risposta rapida alle trasformazioni culturali in arrivo, con una quota di orgoglio professionale o semplicemente un desiderio inconscio di allinearsi alla moda del momento.

Stavolta non si tratta di afferrare la meteora del Metaverso, ma di preparare gli studenti a usare l’intelligenza artificiale, cioè le interfacce dialogiche di OpenAI, cioè i prompt.  I tre concetti sono spesso percepiti come uno solo: se il prompt di ChatGPT coincide con l’intelligenza artificiale, imparare a usarlo significa avere una patente che permette di entrare nel Paese dei Balocchi intelligenti.

Questo, dal mio punto di vista, non è un buon punto di partenza: ci sono mille tipi di “intelligenza artificiale”, mille modi di applicarla e mille interfacce diverse. Convincersi che conoscerne uno solo sia la chiave per il futuro è davvero ingenuo. E poi, anche ammettendo che si tratti della più grande invenzione degli ultimi dieci anni, niente ci assicura che la maniera specifica per averci a che fare oggi – il prompt – rimanga la stessa anche solo per i prossimi sei mesi. Avere una visione d’insieme: certo; vedere degli esempi per capire come funziona: d’accordo; imparare il modo più furbo per farsi scrivere una ricetta di cucina nello stile di Artusi… non saprei. Può essere divertente, ma quali garanzie fornisce sull’occupabilità futura (se questo era lo scopo)? Sarebbe come se negli anni ‘90 qualcuno avesse detto che per prepararsi alle professioni digitali bisognava imparare a usare il mouse. Come? Dicevano proprio così? Può darsi.

Un secondo limite che vedo in questa autoformazione è la tonalità emotiva. I docenti si preparano  nei modi più disparati, iscrivendosi a webinar, partecipando a convegni, comprando libri, in attesa di frequentare corsi veri e propri. Accedono a  flussi di informazioni di qualità diversa, proposti da attori diversi, pubblici e privati, ma che hanno in comune una caratteristica: l’adesione entusiasta e la scarsa propensione alla critica. Gli aggettivi usati per descrivere gli agenti artificiali creativi sono “entusiasmante, creativo, coinvolgente, dinamico, stimolante”. Siamo ancora nella fase pubblicitaria, in cui il discente (il cliente) deve essere convinto della bontà del prodotto. Si capisce anche che nessuno abbia voglia di spendere tempo e soldi per leggere un libro che parla male della novità del momento. La modalità critica appartiene tipicamente alla terza fase, quella che viene dopo l’utilizzo quotidiano con l’apparire dei problemi. Purtroppo a volte non è possibile aspettare così tanto: a quel punto certe modalità si sono inserite nella pratica e diventano inamovibili.

Una vecchia conoscenza, un’insegnante che conosco da trent’anni, quando ho detto pubblicamente che non avevo ancora ben capito i vantaggi dell’uso di ChatGPT in classe si è meravigliata: “ma come, proprio tu che una volta eri tra quelli più aggiornati e avanzati nel proporre tecnologie digitali?” E’ vero che quando ci frequentavamo ero uno di quelli che proponevano di usare, smontare, fare e non solo stare a guardare; lo facevo anch’io e mostravo i risultati dei miei esperimenti. Non è che adesso sia diventato luddista tutto insieme; ma mi pare che un’analisi critica mostri come quegli strumenti fossero più smontabili e controllabili di questi. Forse, da vero boomer,  sono anche diventato un po’ più sospettoso sulle nuove tecnologie attuali di quanto non lo fossi sulle nuove tecnologie del passato. Ma è un atteggiamento che rivendico come conquista dovuta all’esprienza. E’ un po’ come il Lego: lo si può usare e basta, oppure ci si può domandare dove viene fabbricato e con quale plastica (se lo si fa, si scopre che i mattoncini sono fatti di Acrilonitrile Butadiene Stirene, un polimero  derivato dal petrolio che ha un tempo di decomposizione stimato intorno ai 1300 anni. Noi forse non ci saremo più ma i mattoncini saranno sempre là).

Credo insomma che sia sempre utile collocare ogni nuova iniezione tecnologia nel suo contesto: da dove viene, a cosa serve, a chi porta vantaggi, cosa potrebbe diventare, quali rischi potrebbe nascondere. Più la tecnologia sembra meravigliosa, gratuita, irrinunciabile, più credo che occorra studiarla da vicino. L’Omino di burro è sempre molto abile a invitare a salire sul suo carro.

Le tecnologie non sono tutte uguali. Ci sono tecnologie che si possono smontare e tecnologie opache; tecnologie che possono potenziare l’apprendimento e tecnologie che si limitano a liofilizzarlo; tecnologie nate o almeno adattate all’educazione e tecnologie importate velocemente per massimizzare il recupero degli investimenti. Non si tratta di essere a favore o contro in generale, ma di scegliere.

In questa serie di articoli provo a ricostruire il senso di questa ennesima importazione nella scuola di uno strumento tecnologico nato altrove. Lo faccio cercando di collocarlo all’interno di un contesto più generale: quello delle macchine programmabili.

Anche se mi sono occupato professionalmente di programmazione, di intelligenza artificiale e di didattica, non è un approccio dettato solo dalla mia storia personale e per fortuna non sono il solo a tentare di adottarlo:[i] anche da qualche altra parte si comincia a pensare che il rischio più grande stia proprio nel ritenere che si possa ragionare e parlare di intelligenza artificiale (in generale, di qualsiasi tecnologia della conoscenza) da un solo punto di vista, che sia quello epistemologico (complessità), quello tecnico (efficienza), oppure quello didattico (efficacia). Nessuna tecnologia è solo una faccenda di trovare le soluzioni migliori per risolvere problemi; per il semplice fatto che quella soluzione determinata che è incarnata da una certa tecnologia creerà problemi di altro tipo (per esempio, di sostenibilità ambientale o sociale). Così pure nessuna tecnologia può essere astratta dal contesto per cui è nata, presa in prestito e immersa nell’ambiente educativo senza considerarne le logiche profonde, senza essere ripensata e adattata.

Nella prima parte ci occupiamo delle macchine che sembrano intelligenti, poi di quelle che fingono di esserlo; vediamo poi come è nato il prompt e dove altro lo possiamo incontrare. Infine cerchiamo di capire quale potrebbe essere il senso del suo uso didattico, se ce n’è uno.

[i] Penso in particolare alle persone con cui ho discusso di questi temi (Rodolfo Marchisio, Marco Guastavigna, Monica Oriani)

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