Quando l’educazione all’affettività si faceva anche senza Valditara e senza gli influencer

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di Nicola Puttilli       

Alcuni giorni fa un’insegnante della scuola che dirigevo a Nichelino, realtà allora particolarmente problematica dell’hinterland torinese, mi ricordava con un messaggio che più di una ventina di anni fa istituimmo nella scuola elementare un laboratorio di educazione all’affettività e alla sessualità, osservando, con una punta di ironia, come già allora fossimo all’avanguardia, anche senza il supporto degli influencer.

Influencer o meno l’avvio del laboratorio fu reso possibile grazie a quel poco di organico funzionale e di risorse aggiuntive (L 440/97) che accompagnò la prima attuazione dell’autonomia scolastica, voluta dall’allora ministro dell’istruzione, recentemente scomparso, Luigi Berlinguer.
Il laboratorio, così come lo stesso tentativo di dare vita a una vera, per quanto iniziale, autonomia, ebbe breve vita. Il ministro che, come non bastasse l’autonomia, si era messo in testa di riformare anche gli ordinamenti scolastici, sostanzialmente risalenti alla riforma Gentile, fu presto trafitto dal fuoco amico e costretto alle dimissioni.

Dal 2001, ministro Letizia Moratti, cominciarono gli anni delle vacche magre: tagli indiscriminati, di finanziaria in finanziaria, fino a praticamente dimezzare in poco più di un ventennio la quota di PIL destinata all’istruzione. Operazione, quest’ultima, in cui si distinse per accanimento e perseveranza la ministra Gelmini.

L’autonomia scolastica si tradusse presto nello scarico verso le scuole di tutte le procedure burocratiche e amministrative che prima facevano capo ai provveditorati agli studi. Gli organici funzionali furono rapidamente dimenticati e nella scuola primaria tagliate drasticamente  le compresenze sul tempo pieno, rendendo sempre più difficili quelle preziose esperienze laboratoriali che ne avevano caratterizzato la nascita negli anni’70.
Negli altri ordini di scuola è costantemente lievitato il numero di alunni per classe e per converso drasticamente diminuito il numero di autonomie scolastiche (istituzioni oggi per lo più sovradimensionate, cariche di compiti amministrativi, con il dirigente scolastico sempre più lontano dai temi educativi e didattici che dovrebbero invece maggiormente caratterizzarne la dimensione professionale).

Gli esiti di questa fallimentare politica scolastica purtroppo li conosciamo bene: risultati di apprendimento insoddisfacenti, deficit relazionali e comportamentali, dilagante analfabetismo di ritorno, tassi di abbandono e dispersione tra i più alti d’Europa e con fortissimi squilibri regionali e territoriali.

Con l’eccezione della legge 107/15, anch’essa peraltro declinata burocraticamente, dopo Berlinguer i governi e i ministri che si sono succeduti hanno praticamente rinunciato a occuparsi di scuola, considerandola una riserva di caccia per le leggi finanziarie e limitandosi a interventi di piccolo cabotaggio (chi ricorda il “cacciavite” di Fioroni?) o, peggio, tesi a lasciare una qualche traccia purchessia della propria presenza (per onor del vero c’è stato anche il caso del ministro Fioramonti che si è dimesso perché gli investimenti promessi non erano stati confermati, o almeno così ha dichiarato, caso unico per quel che riguarda le dimissioni, regola confermata per i mancati investimenti).

Si sono così ripetute, a seconda degli echi di cronaca del momento, le misure, più o meno andate a segno, tese ad imporre dall’alto ore aggiuntive praticamente su tutto. Dall’educazione stradale in caso di incidenti gravi, all’educazione motoria cara al ministro già insegnante di educazione fisica, nella primaria. Dall’orientamento quando la pubblica opinione discute del disallineamento tra offerta formativa delle scuole ed esigenze del mondo imprenditoriale, all’educazione civica se il tema del giorno è quello del bullismo, fino all’ educazione alle relazioni e ai sentimenti (per la sessualità si può sempre aspettare) in caso di femminicidio, senza dimenticare le ore di religione cattolica già presenti dal 1984.

Nella mente dei nostri ministri continua a prevalere l’idea dei vasi da riempire, come se i comportamenti derivassero più dalla quantità dei contenuti appresi che dalla qualità degli stessi e, soprattutto, dalla qualità degli approcci metodologici e delle relazioni che gli insegnanti sono in grado di impostare fin dalla scuola dell’infanzia e a prescindere dalla specifica disciplina di insegnamento, in ogni istante del loro rapporto con gli studenti.

I problemi della scuola italiana sono enormi e strutturali, a poco servono interventi- immagine e ore aggiuntive distribuite qua e là. Anche se le riforme di sistema, nella scuola in particolare, non hanno mai pagato politicamente, sarebbe forse ora di assumersi la responsabilità di ritornare a una visione generale, a un progetto di grande respiro in grado di dare speranza alla nostra scuola.
Le vie individuate da Luigi Berlinguer più di venti anni fa possono ancora  essere un importante punto di riferimento: sia la riforma dei cicli utile a contrastare la selezione precoce e la successiva dispersione scolastica sia, e soprattutto, una vera autonomia scolastica.

Più di vent’anni fa a Nichelino IV circolo eravamo stati in grado di intercettare le esigenze del territorio e di fornire risposte significative, senza imbeccate ministeriali e tanto meno interventi di influencer o simili dell’epoca. La scuola italiana ha bisogno di investimenti importanti, dalla sicurezza delle scuole alla  qualità degli ambienti di apprendimento, fino alla formazione del personale- Non sarebbe male cominciare con il rispedire agli uffici ministeriali territoriali scartoffie e pratiche burocratiche varie e dare fiducia e mezzi, in termini di organici funzionali e di risorse, ai nostri insegnanti e ai nostri dirigenti scolastici, riprendendo, là dove l’avevamo lasciata, la strada di una vera autonomia scolastica.