Ma la maieutica funziona ancora?
Leggo su Education Week l’articolo di un ricercatore, direttore degli studi sulle politiche educative presso l’American Enterprise Institute. Un articolo dedicato alla riscoperta del metodo socratico, che evidentemente pare essere stato dimenticato dalle scuole americane. Possibile che altrettanto valga per quelle italiane, non dispongo di dati in merito, sempre che si praticasse.
Quando studiavo pedagogia alle magistrali la maieutica socratica andava forte, cioè, ci spiegavano, l’arte della levatrice, quella di fare nascere il sapere dal di dentro dell’alunno, del resto l’etimologia di educazione, l’insegnante ricordava, è ex ducere, cioè condurre fuori. Le implicazioni poi di questo modo di concepire il sapere e l’insegnamento si perdevano nella nebbia del nozionismo scolastico.
Insomma, l’idea che il sapere per essere estratto, o meglio, per essere portato a galla, dovesse essere in qualche modo già posseduto, non era oggetto né di riflessioni né di approfondimenti.
D’altra parte il Socrate che noi si studia è quello che ci ha raccontato Platone col suo iperuranio, le anime che cadono per via dei cavalli imbizzarriti e la conseguente metempsicosi.
Non è che poi ti facevano leggere il Menone, sostanzialmente la dimostrazione pratica di come Socrate metteva in atto attraverso l’arte del dialogo, domanda e risposta, la sua maieutica.
Menone, schiavo illetterato, sollecitato dalle domande del filosofo, giunge a risolvere complessi problemi di geometria. Chi l’ha letto ricorderà che Socrate pone al giovane schiavo un quesito: “Se io ti disegnassi un quadrato, sapresti trovarmi un quadrato dall’area esattamente doppia del primo?” Menone, che nulla sa di geometria, d’istinto risponde: ”Il quadrato con l’area doppia lo ottengo creandone uno nuovo che abbia per lato il doppio del lato del primo quadrato”.
La risposta è sbagliata, ma lo schiavo riflettendo, sollecitato dalle domande del maestro, giunge a dare quella corretta.
Il dialogo, dunque, è l’esplicazione di come funziona la maieutica socratica. Potremmo dire che Socrate è stato il precursore di ciò che noi oggi chiamiamo problem solving.
Fra parentesi, per coloro che non avessero letto il Menone e fossero curiosi di conoscere la soluzione del problema posto da Socrate, consiglio di disegnare un quadrato e di tracciare le due diagonali, a questo punto la risposta dovrebbe essere intuitiva.
Abbiamo pagine di psicologia e di pedagogia che avrebbero dovuto facilitare la familiarizzazione della didattica con le tecniche del problem solving, rendere naturale il dialogo tra docente e studenti, il saper porre le domande da parte dell’insegnante e il saper ricercare le risposte a sua volta da parte dello studente senza il timore di sbagliare.
La vivacità dialettica non mi sembra un connotato delle nostre classi. Se vogliamo anche per comprensibili ragioni pratiche, come fai a gestire una didattica del dialogo con una classe di venticinque alunni, meno consistenti sono le osservazioni che così facendo non porteresti a termine il programma.
Meglio teste ben fatte, per dirla con Morin, che teste infarcite come uova.
Ma la questione è di grande attualità, la formazione al problem solving, la richiede per primo il mercato del lavoro, ma a prescindere da questo, e per evitare critiche di aziendalismo, pensiamo per davvero di poter formare e crescere generazioni di giovani che non abbiano familiarità e confidenza con la problematizzazione della realtà? Con l’abitudine a ricercare le risposte, accedere alle banche dati, alle fonti del sapere che possono fornire gli strumenti per confezionare le risposte stesse?
Qualcuno ha parlato, ci ha scritto pure, di risveglio della classe creativa, ma è inconcepibile che ci sia ancora chi pensi che il progresso nel sapere, nella conoscenza, nella ricerca scientifica non richieda di sviluppare forti capacità creative, intelligenze capaci di pensare la realtà oltre la realtà stessa, di interrogarla e formulare ipotesi.
Le televisioni commerciali con la creatività ci fanno i soldi. I giovani devono capire ed essere attrezzati a fare della creatività il loro futuro e non soggiogare le loro menti ai prodotti più deteriori della commercializzazione della creatività umana.
La ricerca scientifica consiste nel risolvere problemi, la vita è costituita da problemi da risolvere e, quindi, apprendere a risolvere problemi significa apprendere a vivere, scriveva Karl Popper, come già più di un secolo fa John Dewey teorizzava la didattica per problemi, per non parlare di quello che è venuto dopo nel campo della ricerca. Ma noi abbiamo fatto la scuola dello spirito, la scuola dell’umanesimo dimenticando di allenare e tenere esercitate le menti dei nostri giovani, troppo faticoso.
E qui viene il dunque, che per praticare la maieutica, il problem solving non solo bisognerebbe organizzarsi in maniera differente da come sono strutturate le nostre scuole, e questo è già un problema, perché menti che lavorano hanno bisogno di laboratori, ma bisogna anche essere competenti, essere preparati.
Se non si è mai fatto, nessuno te l’ha insegnato come fai ad averlo imparato.
Forse è questa la ragione vera per cui nelle scuole americane la maieutica non ha radicato, come del resto nelle scuole di casa nostra, la maieutica moderna intendo, il problem solving, quello dell’insight alla Wertheimer.
Noi al massimo pratichiamo la maieutica del fai da te come canta in Spazio Tempo Francesco Gabbani.
La didattica della nostra scuola è ancora quella delle risposte, le risposte da apprendere dalla voce dell’insegnante, dalle pagine dei libri di testo, le risposte da riferire nelle interrogazioni, da esercitare con i compiti, da verificare con i test, con le prove oggettive a risposta multipla. Ma formulare le domande giuste per interrogarsi e ricercare è tutta un’altra storia.
E allora il metodo socratico diventa complicato, difficile da applicare bene. Il metodo socratico, osserva l’autore dell’articolo a cui facevo riferimento all’inizio, richiede che un insegnante abbia una profonda conoscenza dell’argomento specifico, una biblioteca di analogie rilevanti, una padronanza delle strade che il dialogo può prendere e la capacità di interpretare l’avvocato del diavolo.
Fare tutto questo bene richiede tempo e pratica, entrambi elementi che scarseggiano per gli insegnanti che corrono per portare a termine il programma, anche questo vecchio retaggio gentiliano.
Pertanto il problema più grosso che ha la nostra scuola e il suo futuro è quale profilo docente sia necessario progettare. Siamo di fronte a uno di quei casi in cui lo sviluppo professionale, se adeguatamente disegnato può fare una grande differenza.
Oggi, naturalmente, alla faccia della maieutica socratica e della sua versione più moderna, quasi nessun insegnante ha ricevuto nemmeno un briciolo di tale formazione.