La cura dei giovani: spetta alla scuola o alla famiglia?

di Raimondo Giunta

  • SCUOLA E FAMIGLIE: UN RAPPORTO PROBLEMATICO

Le cronache sconvolgenti di violenza giovanile contro le proprie coetanee ammoniscono sul fatto che l’educazione dei giovani, oggi, è diventato un problema serio, grave, che riguarda tutti indistintamente e purtroppo non facile da affrontare, perché la responsabilità educativa è declinata in modo diverso da chi se ne dovrebbe fare carico. La responsabilità educativa nei confronti dei giovani ricade su chiunque per ruolo o per età con loro abbia o sia tenuto ad avere delle relazioni, anche se diverse per gradi di obbligatorietà.
Nessuno, infatti, può essere responsabile nei confronti dei giovani come sono tenuti ad esserlo i genitori. La responsabilità educativa dei genitori costituisce “l’archetipo di ogni responsabilità” (H. Jonas) e si comprende come sia difficile rimediare ai danni procurati quando questa, come sempre più spesso accade, non viene esercitata, perché ai giovani mancheranno la guida, il buon esempio, i consigli e la cura nello sviluppo del proprio carattere, nella costruzione delle capacità di relazione, nella sollecitazione a regolarsi nella vita secondo principi e valori condivisi.

Alla responsabilità educativa dei genitori nelle società evolute e complesse si accompagna quella della scuola.  I loro compiti si intrecciano, ma non sono identici. Quelli dei genitori sono relativi alla dimensione personale dei giovani, quelli della scuola, relativi alla dimensione sociale e pubblica, tendono all’integrazione nella società, a sviluppare un rapporto di fiducia con le istituzioni e ad agire nella legalità.
Questo dovrebbe accadere se ognuno facesse la propria parte. I fatti di cronaca, non solo quelli recenti, dicono che qualcosa in questa divisione dei compiti non funziona, perché qualcuno dimentica di assumersi le proprie responsabilità.
Sicuramente negli ultimi tempi funziona molto poco il collateralismo tra scuola e famiglia che nel passato rendeva proficuo e meno difficile il lavoro scolastico; oggi varcano la soglia delle scuole giovani provenienti da ambienti sociali lontani dal sistema di abitudini, di procedure e di valori della scuola e di fronte a questa novità sociologica la scuola incontra difficoltà a reinterpretare il proprio ruolo e a ripensare l’insieme delle proprie finalità.

FINALITA’ EDUCATIVE E SCUOLA

Il problema delle finalità educative presenta molte sfaccettature, perché continuo è il processo di riarticolazione dei “valori” prevalenti in una società che occorre tenere presenti.  Nel merito non ci sono proposte facilmente condivisibili, perché ognuna di esse evoca una propria visione antropologica e una propria concezione della convivenza umana. Si può tentare, però, una soluzione. L’educazione a scuola in una società pluralistica non può essere improntata ai valori dedotti da un’idea astratta dell’uomo o da una particolare antropologia, ma ai principi di regolazione sociale che possono garantire il massimo di libertà per tutti e il massimo di rispetto altrui. L’educazione di cui si ha bisogno ha un senso, se chiunque ne abbia la responsabilità si impegna a far crescere e sviluppare l’umanità che è in ognuno di noi per essere reciprocamente umani, per essere reciprocamente liberi, per essere rispettosi della propria e della dignità degli altri, garanti dei propri diritti e di quelli degli altri. Sono valori che dovrebbero essere di comune accettazione, se si vuole disporre di principi di riferimento per la nostra convivenza.

Ovviamente in ragione di questa scelta vanno esclusi dalla scuola idee e valori che sono contro i diritti inalienabili della persona e che alimentano la violenza, l’odio verso la diversità, l’ingiustizia di qualsiasi specie.

All’interno di questo quadro di obbligazioni morali la scuola definisce le regole che devono governare la vita quotidiana e la convivenza dei giovani che la frequentano: regole che vanno fatte rispettare e difese con energia. A scuola si impara un mestiere e si impara a stare con gli altri; anzi se non si impara a stare con gli altri riesce difficile imparare un mestiere.
La scuola come istituzione ha una propria identità, costituisce un mondo particolare che può diventare significativo per i giovani,  se intorno agli aspetti della vita scolastica si riesce a sviluppare una consapevole attività educativa, ad organizzare un loro percorso di assimilazione(ordine, puntualità, impegno, responsabilità personale, rispetto delle persone e delle cose, ascolto, dialogo, equità, collaborazione, spirito di sacrificio, primato del sapere e della cultura, sensibilità artistica, spirito critico etc).
Nello spazio scolastico si possono giocare partite molto importanti per la promozione della cultura e di valori morali e si può attivare per giovani provenienti da ambienti a rischio un processo di decondizionamento culturale e sociale.

Ad un’educazione così come è stata delineata per grandi tratti negli ultimi tempi è mancato il contributo di tante famiglie, molte delle quali esposte alla precarietà dei propri rapporti interni, disperse e umanamente impoverite nell’anonimato di quartieri senza servizi e senza opportunità di incontro o dove hanno perso capacità di attrazione,  se ancora esistono e resistono :l’oratorio, il sindacato, il partito, l’associazione sportiva etc.
Quartieri dove scompaiono i piccoli negozi e i laboratori artigianali, luoghi dell’umano traffico quotidiano. Questa assenza educativa spesso si trasforma in diffidenza e nell’aperta ostilità dei genitori, interessati a tutelare i propri equilibri familiari e i propri interessi, più che alla crescita e alla formazione dei propri figli. Con la scuola un rapporto forse obbligato, forse utilitaristico, ma non di collaborazione.

Fa fatica a educare i giovani anche la scuola. E questa non è una notizia nuova e tantomeno buona.
E’ il problema dei problemi, perché la maggior parte del tempo dell’educabilità dei giovani trascorre dentro gli spazi degli istituti scolastici. Fino ai 19 anni è più il tempo passato a scuola che quello passato in famiglia e nella società. Le ragioni di questa difficoltà sono diverse e bisognerebbe considerarle ognuna nella propria specificità.
A scuola si cerca in genere di fare educazione alla cittadinanza, ma emerge dai fatti di cronaca la necessità di andare oltre, perché non si ha bisogno solo di questo. Su questo argomento nelle scuole si è spesso solo a livello di esigenza, ma non di convincimento forte e corale e si dimentica quanto è possibile fare partendo, come è stato detto sopra, dagli aspetti della vita quotidiana a scuola.
E’ un dato di fatto che la funzione educativa della scuola non abbia avuto il rilievo che avrebbe dovuto avere. A scuola si è spesso occultato lo spazio delle finalità e si è avuto quasi fastidio ad usare il lessico pedagogico che rinvia a temi etici e che propone il compito della responsabilità educativa.

Per alcuni insegnanti e operatori della scuola l’educazione morale, quella affettiva e l’educazione come sapere stare al mondo o in comunità spetta ai genitori.
E’ lunga la tradizione che vuole gli insegnanti solo come professionisti della trasmissione dei saperi e la scuola come luogo eletto degli apprendimenti delle conoscenze e delle tecniche.
E’ forte l’avversione per attività che si ritengono di altrui competenza. Ma se anche il sapere, le conoscenze fossero le uniche ragioni che spiegano e fondano il rapporto docente-alunno, l’attività scolastica è un’attività comunitaria e questa si può sviluppare con beneficio di tutti se alcune regole, che non possono essere se non regole di ordine morale, vengono rispettate da tutti.
L’insegnante non può essere solo uno specialista che insegna la propria disciplina, in grado di possedere e di dominare una certa area di conoscenza e di controllare tutti gli aspetti della comunicazione ad essa relativi.
L’insegnante deve sapere non solo cosa insegna e come, ma anche chi sono i suoi allievi, di che cosa hanno bisogno, in che ambienti e in quali famiglie vivono, in che genere di società crescono. In altre parole la cura degli alunni, l’attenzione ai loro problemi, l’accompagnamento nei loro processi di crescita non sono azioni possibili “del” e “nel” rapporto educativo, ma atti necessari e senza di essi non si genera la formazione, non si genera la crescita umana.

GLI OSTACOLI

Se anche la scuola volesse sul serio farsi carico dei compiti educativi che le spettano, compresi quelli nuovi che emergono dai fatti di cronaca, bisogna vedere a quali condizioni sia possibile farlo. Non mancano, infatti, gli ostacoli che si frappongono all’assunzione e allo svolgimento di questi compiti.  Il più serio di questi ostacoli è costituito dall’organizzazione stessa degli istituti,  così come la si è voluta configurare negli ultimi anni :

A) La dimensione prescritta degli istituiti per avere e per conservare l’autonomia comporta per il dirigente scolastico un aggravio consistente dei compiti gestionali, che anche involontariamente possono essere svolti a scapito di quelli culturali e pedagogici;

B) Non pochi interventi legislativi hanno messo a dura prova gli equilibri interni e la logica stessa della scuola come comunità educativa, perché alimentano non casualmente i conflitti e rischiano di mandare fuori orizzonte la preoccupazione educativa;

C)La precarietà di parte significativa del personale docente rende aleatori i legami dentro i consigli di classe, unici luoghi di armonizzazione degli stili professionali e di attenzione educativa. E se non funzionano i consigli di classe ogni preoccupazione educativa diventa superflua;

D)L’organizzazione del tempo scolastico diventa ogni giorno sempre più incompatibile con quella del tempo di lavoro e del tempo vissuto nella famiglia e questo causa una contraddizione sempre più stridente tra quotidianità e scuola, tra bisogni vitali della famiglia e organizzazione scolastica;

E)L’assenza in molte scuole di spazi,  di tempi e di strutture di convivialità, che non aiuta a praticarsi,  ad accettarsi e a rispettarsi. Ci sono scuole senza palestre e senza cortili…

Non sono solo le questioni gestionali e organizzative dei singoli istituti a rendere complicato e a volte evanescente il compito educativo. Qualcosa va ricercato anche all’interno della stessa struttura curriculare.
L’affollamento delle discipline, ma con relativa diminuzione di quelle umanistiche, allontana le possibilità di un apprendimento riflessivo e quindi di maturazione intellettuale e di fatto impedisce l’applicazione di metodologie collaborative nei tempi limitati dell’orario settimanale di lezioni: risorsa fondamentale per motivare, responsabilizzare e fare crescere nella capacità di ascolto. L’ossessione valutativa che si accanisce sulla scuola fa il resto del lavoro, perché finisce per dare rilievo solo ai risultati di apprendimento, costi quel che costi.

PROVVEDIMENTI DISCIPLINARI O EDUCATIVI?

L’educazione è fatta di buone testimonianze e di esortazioni; è fatta di divieti, di regole da rispettare e di sanzioni per chi non li rispetta, che devono essere funzionali all’educabilità, ma anche al regolare andamento della vita scolastica. A scuola ci sono minorenni e ci sono maggiorenni e questo dato impone una diversificazione degli eventuali provvedimenti disciplinari. Di fronte a fatti ripetuti che incidono sulla sicurezza e l’incolumità delle persone o come si deve talvolta constatare sulla dignità delle istituzioni e di chi le rappresenta, se le norme disciplinari interne si rivelano insufficienti, bisogna ricorrere ad altre norme. E nelle proprie norme non si può escludere l’allontanamento dalla scuola, quando dopo tutti i tentativi messi in opera questa misura è l’unica alla quale affidarsi per tornare alla normalità in una classe o in un istituto.
Non si può restare disarmati rispetto a chi deliberatamente vuole fare del male alle persone con cui divide lo spazio di una classe e di un istituto e per farlo deliberatamente non è necessario essere maggiorenni.

Se un istituto deve avere delle norme interne di vivibilità, questo non comporta l’installazione di telecamere nelle classi e nei corridoi per facilitare il compito; una scuola non deve diventare un istituto di sorveglianza. Le norme di vivibilità hanno bisogno solo di adulti che le rispettino costantemente, come proprio compito e che dimostrino nei fatti e quotidianamente di amare il proprio mestiere e di volere il bene delle persone che loro sono state date in affidamento.

Il dramma è proprio questo.
Una scuola che non si curi o che non è messa nelle condizioni di curarsi dei giovani rischia di non potere assolvere i compiti di formazione delle competenze e di trasmissione dei saperi, per i quali istituzionalmente esiste. Il compito educativo che le compete, però, non può essere svolto nel pieno di una costante campagna di delegittimazione o con l’ostilità crescente dei genitori. Il compito educativo a scuola è un compito plurale e di collaborazione e la collaborazione non è la competizione, la corsa al primato individuale che si è voluto innestare nel corpo professionale.

Deve essere pensato e progettato nel collegio dei docenti e svilupparsi nei consigli di classe.
E’ l’intero istituto che deve porsi come luogo di accoglienza e di reciproco rispetto. Per educare non è necessario inventarsi l’ora di educazione morale o di quella affettiva, ma solo far vivere nei gesti quotidiani di ogni attività scolastica, a partire da quella didattica, il rispetto di sé e degli altri.