Il Codice di Camaldoli, 80 anni dopo
di Raimondo Giunta
E’ giusto che si torni a parlare del Codice di Camaldoli, del suo significato e della sua possibile attualità, soprattutto nella fase politica in cui si proclama di volere mettere ancora una volta mano alla Costituzione, per farla diventare altra da quella che è e da quella che era stata pensata e desiderata.
Il Codice di Camaldoli è a distanza siderale dalla situazione di oggi, dalle scelte di oggi, dallo spirito di oggi, dagli uomini di oggi.
CLICCA QUI PER LEGGERE IL TESTO DEL CODICE
Parlare di Camaldoli non è però inutile.
Significa parlare del modo in cui si fa una Costituzione, del modo in cui si pensa una Costituzione e anche del tempo che ci vuole per avere UNA BUONA COSTITUZIONE.
Tutto comincia in una settimana del mese di Luglio del ‘43. Parte del mondo cattolico sente ”l’urgenza di prendere posizione di fronte alle più vive e dibattute questioni sociali ed economiche”(Codice) per essere preparata, quando si sarebbe presentata l’occasione, a dare soluzioni ai problemi di una nazione, che già era prostrata da tre lunghi e sanguinosi anni di guerra e si trovava le truppe straniere in casa.
Venne organizzato un convegno nell’Eremo di Camaldoli, cui partecipò una trentina di studiosi laici ed ecclesiastici. I partecipanti ai lavori, che durarono una settimana, si proponevano di dare forma organica e scientifica e anche sintetica alle enunciazioni del Magistero della Chiesa sui principali problemi della vita economica e sociale; di sceverare tra le affermazioni quelle più adatte alle contingenze del tempo con particolare riguardo ai problemi della ricostruzione di un ordine sociale dopo il collasso della guerra; di tentare una prudente opera di esegesi e di interpretazione e se necessario di integrazione e sviluppo del pensiero espresso nei documenti ufficiali.
Inizia in quei giorni un percorso che si concluderà nel Dicembre del ‘47 con l’approvazione del testo della Costituzione, che sarà promulgata nel primo giorno del mese di Gennaio del ‘48.
Gli anni 43-47 nella storia contemporanea dell’Italia sono stati anni di rara vitalità intellettuale e politica. In quel tempo per grandi linee venne definito il destino dell’Italia Repubblicana e non mancò il contributo importante del mondo cattolico che “non viveva chiuso in un recinto, ma ormai in confronto diretto e in certi casi in alleanza con le forze della sinistra operaia e della democrazia laica” (P.Ingrao).
Si ebbe una politica democristiana che agiva a favore di uno sbocco democratico. La scelta delle istituzioni liberal-democratiche per la nuova Costituzione non può essere considerata senza significato e non era un esito scontato, perché si dovette superare un insieme di forze (apparati dello Stato, Monarchia, industria, truppe occupanti, settori della Chiesa) che avrebbero preferito avere un assetto conservatore-oligarchico.
Lo scontro tra questi diversi orientamenti si concluse a favore delle forze progressiste, perché in quegli anni ci fu un accostamento tra ceti vissuti per lungo tempo nella separazione; ci fu un contatto con le correnti politiche avanzate, che diede vita all’esperienza unitaria della Resistenza (P.Ingrao).
Cattolici e Sinistra lavoravano per fare della democrazia l’unico quadro della vita della nazione, l’unico metodo per dare soluzioni ai problemi della società. Per tutti e due i mondi politici era una conquista e l’inizio di un nuovo cammino politico, che per i comunisti non fu privo di incertezze e contraddizioni.
Dice P.Scoppola: ”La Chiesa non aveva mai accettato il principio liberal-democratico, ossia che fini e contenuti della vita sociale fossero affidati alla libera auto-determinazione della società stessa in un’aperta concorrenza di idee e di forze, cioè al consenso degli individui e in definitiva al numero nelle forme proprie del sistema di governo parlamentare”.
In quegli anni viene superata la tradizionale indifferenza della dottrina sociale cattolica nei confronti della democrazia.
Il gruppo dei “professorini” che faceva capo a Dossetti assunse il ruolo di guida della Democrazia Cristiana nei lavori della Costituente (E.Ragionieri).
La Costituzione uscita fuori dal confronto delle diverse culture politiche dei padri Costituenti era diversa da quelle liberali; era una Costituzione impegnata a definire e a tutelare oltre ai diritti di libertà, anche i diritti sociali. A difesa di queste alte finalità fu disegnata un’architettura delle istituzioni, che apriva molti spazi agli sviluppi democratici e si reggeva su un sapiente equilibrio dei poteri dello Stato.
Determinante il contributo dei cattolici democratici.
La sinistra, dice Ragionieri, non aveva una pari e salda cultura delle istituzioni.
La Costituzione del ‘48 è stata un vero miracolo di saggezza politica. Definita proprio mentre si sfilacciava l’unità antifascista; messa al riparo dalle vicende politiche contingenti e da qualsiasi scelta del Governo. Non si ebbero né sostituzione autoritaria di commissari, né espedienti per impedire il confronto, né voti di fiducia.
Non può e non deve essere sottovalutato il fatto che alla scrittura della Costituzione lavorò un’Assemblea costituente eletta dal popolo col sistema proporzionale.
Non può e non deve essere sottovalutato che la Costituzione del ‘48 è stata approvata a larghissima maggioranza.
All’Assemblea Costituente i cattolici, che si affermarono per il contributo dato al confronto delle idee e alla stesura del testo costituzionale, sono stati quelli che si erano formati nel lungo e fecondo tirocinio, iniziato con la settimana di studio di Camaldoli e concluso con la pubblicazione nel 1945 del testo ”Per la Comunità Cristiana-Principi dell’Ordinamento Sociale “ (Ed.Studium).
Ne furono curatori E. Vanoni-S.Paronetto-P.Saraceno- G.Capograssi: uomini che saranno protagonisti in molti fatti importanti della storia repubblicana, fatta eccezione per Paronetto, deceduto precocemente all’età di 34 anni, prima di aver potuto mostrare per intero il suo grande valore. Coautori e ispiratori del testo furono uomini di forte personalità come La Pira, Fanfani, Taviani, Vanoni, Saraceno, Paronetto, Dossetti, Gonella, Capograssi, Nosengo, Moro: quasi tutti giovani e qualcuno giovanissimo. Provenienti dalla Fuci, dal Movimento dei laureati cattolici, dall’Università Cattolica.
Il Codice di Camaldoli si fa apprezzare ancora per autorevolezza e organicità.
I suoi cardini erano:
1) primato della persona rispetto alle istituzioni. Lo Stato non crea, ma riconosce i diritti e li tutela;
2) forte accentuazione del ruolo della Comunità Politica, come garante e promotrice dei fondamentali valori di giustizia e di uguaglianza fra i cittadini;
3) funzione sociale della proprietà;
4)Insufficienza del mercato, anche se necessario, come istituzione della vita economica;
5) necessità dell’intervento dello Stato per sopperire alle deficienze del mercato;
6) piena occupazione e programmazione economica;
7) redistribuzione del reddito attraverso la progressività delle imposte;
8) collaborazione tra le classi sociali nell’organizzazione del lavoro.
Queste idee sono del Codice, ma, se si osservano bene le cose, sono anche idee della Costituzione del ‘48.
In poche parole il Codice afferma la priorità dei fini sociali rispetto agli interessi economici privati e la priorità dei fini morali su quelli sociali e politici. Se si legge bene quel testo, ma a mio parere anche la Costituzione, ne viene fuori una terza via tra società ad economia privata capitalistica e società ad economia statalizzata. Viene proposto un modello di società che fa della piena occupazione, della dignità del lavoro e dei lavoratori il suo più importante fondamento.
Della giustizia sociale la sua stella polare.
La democrazia ha un prezzo alto e inevitabile: quello di garantire ad ognuno le stesse opportunità, il proprio spazio vitale.
Conosce un solo metodo per farlo pagare: la partecipazione senza impedimenti e limitazioni alle scelte che contano: rappresentanti e contenuti politici. Purtroppo è cresciuto e si è rafforzato da tempo il fronte di quelli che non intendono più pagarlo.
Attraverso leggi elettorali di stampo maggioritario si è fatta strada una specie di tendenza oligarchica, che con le mentite spoglie della necessità di decidere ha ridotto gli spazi e le occasioni di rappresentanza, di partecipazione e di confronto politico.
Il mito della democrazia che decide ci perseguita da più di 30 anni e vuole celebrare altri trionfi Ma il problema non è prendere decisioni, perchè se ne prendono a centinaia; il problema è quello di renderle esecutive e questo problema è di pertinenza della Pubblica Amministrazione.
Non c’è bisogno di sfigurare la Costituzione.
Si vuole chiudere una volta per sempre la stagione del riformismo democratico che aveva puntato sull’allargamento della partecipazione popolare e dei luoghi in cui questa si potesse esercitare .Una stagione che comincia con la Costituzione del ‘48,prosegue con l’impianto della Corte Costituzionale, l’istituzione delle Regioni, lo Statuto dei lavoratori, gli organi collegiali della scuola, la delega dei poteri ai Comuni, l’esercizio dei referendum, l’istituzione delle Unità Sanitarie Locali.
A partire dalla metà degli anni ‘80 è iniziato il percorso che ci sta portando inesorabilmente dalla cittadinanza alla sudditanza. Per 30 anni si è auspicato e alla fine si è avuto un riformismo adattivo alle esigenze attuali degli interessi forti e prevalenti del sistema economico, allergici ai principi democratici.
Un riformismo che allontana il cittadino dal controllo della Cosa Pubblica e che radica il suo fondamento nella violazione del principio costituzionale dell’uguaglianza del voto dei cittadini.
Le Costituzioni sottolineano i passaggi più significativi della storia di una nazione e ne riassumono, se lo si vuole, il passato e ne prefigurano il futuro. Non sono eterne, ma esprimono lo spirito del tempo.
Quella del ‘48 è la Costituzione della rinascita, dei diritti, della libertà e della giustizia sociale.
Ci vorrebbe un nuovo Dossetti per gridare come nel ’94 ”Sentinella, quanto resta della giornata?”.
E’ alta la scommessa .Nel Novecento democrazia e stato sociale sono andati di pari passo. Se smonti la prima, finisce anche il secondo come sua naturale conseguenza.
La democrazia è il luogo in cui i conflitti sociali si esprimono e si risolvono nella mediazione. Il suo ridimensionamento è il risultato della scelta di lasciare ai rapporti di forza e solo a quelli la soluzione dei problemi sociali.
Questo significa abbandonare a se stessa una parte consistente e crescente della società.
Quella in difficoltà.