T come tempo scuola e tempo pieno

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di Giancarlo Cavinato

Nella pedagogia Freinet assume grande rilevanza l’organizzazione della classe e della scuola, quindi l’uso degli spazi e dei tempi.
Bambini che vivono in un ambiente ‘disordinato’ come i piccoli alunni di borgata del maestro Albino Bernardini  negli anni 60 in cui ‘imparano che i “duri” resistono meglio degli altri” o viceversa in un ambiente iperorganizzato in cui i ritmi e i diversi momenti sono tutti eterodiretti attraverso un’organizzazione cooperativa interiorizzano gradualmente e fanno propri dispositivi e ritmi che consentono collaborazione e sforzo comune. Quanto l’organizzazione del contesto e di ‘sistemi’ diversificati incidano sullo sviluppo umano è stato dimostrato dalle ricerche sull’ecologia dello sviluppo di U. Bronfenbrenner.[1]

L’organizzazione non è neutra ma incide sul sistema di aspettative, sulle interazioni, sull’autostima, sulla fiducia in sé e negli altri, sulle risorse personali e del gruppo.
Nelle scuole francesi ai tempi di Freinet e anche oltre il ritmo della giornata era costituito da un orario antimeridiano di tre ore e un ritorno pomeridiano di due ore in 5 o 6 giorni. Con un unico maestro, spesso in piccole scuole rurali.
Un’organizzazione analoga la condividevano i maestri della cooperazione educativa fino agli anni 70: era l’esperienza di Mario Lodi, di Bruno Ciari, di Giovanna Legatti e tanti altri. Ma con il diffondersi del movimento, della sensibilità nella società civile, di una conoscenza pedagogica adeguata ai tempi dello sviluppo economico e sociale negli anni 60-70, si pose il problema delle grandi scuole cittadine, dell’inurbamento  dalle campagne e dell’emigrazione dal sud di grandi masse che approdavano al mondo dell’industria.
Se a una parte dei bambini che frequentavano la scuola dell’obbligo, scriveva Francesco Tonucci, era garantito il rifornimento culturale composto di antipasto, pasto e dessert, per un’altra gran parte al massimo si prospettava un primo scarso. I primi possedevano già i codici, erano già immersi in cornici culturali omogenee e quanto la scuola offriva (per loro era una specie di surplus), per i secondi l’esperienza e le richieste erano spesso di spiazzamento e incomprensione, così da farli ritenere ‘disadattati’.

La risposta che il mondo della scuola, della ricerca, la nascente sindacalizzazione degli insegnanti e associazioni come il MCE, grazie anche all’immissione di giovani insegnanti disponibili a mettersi in gioco seppero elaborare fu il tempo pieno.
Già nell’esperienza di Lodi e altri/e il tempo scuola risultava insufficiente per sviluppare attività significative che lasciassero traccia negli alunni costruendo reali strumenti di lettura, comprensione e intervento sulla realtà. I maestri del Movimento spesso rientravano a scuola nel pomeriggio con i loro alunni (il doppio tempo, antimeridiano e pomeridiano, era ormai residuale nelle zone rurali; nelle cittadine e nelle città spesso si doveva ricorrere ai doppi turni, quindi o un orario di 4 ore al mattino o di tre ore al pomeriggio a mesi alterni). Si ‘preparavano’ andando a ricercare fonti e materiali, svolgendo una preindagine d’ambiente. Cercavano ‘testimoni’ da portare a scuola e da far intervistare dai ragazzi.

Il tempo pieno, cioè la costituzione di una giornata ricca, varia, stimolante, con attività diversificate al suo interno, con l’apertura delle classi, la contitolarità di due docenti, l’uso di strumenti e tecniche moderne sembrò la risposta alle povertà educative e all’isolamento e alla sopravvalutazione dei ragazzi dei ceti abbienti per una integrazione di modalità, codici, strategie. Una giornata completa di otto ore (forse una formula un po’ ‘operaistica’) comprensiva del tempo mensa (non la ‘mensa dei poveri’ del doposcuola comunale) ritenuto estremamente importante sia per un avvicinamento di gruppi umani spesso incomunicanti una volta adulti sia per il valore educativo del mangiare insieme, del condividere, del superare resistenze e gusti.

Facciamo parlare a questo proposito il grande pedagogista Francesco De Bartolomeis con il suo ‘Scuola a tempo pieno’ del 1972, l’anno successivo all’entrata in vigore della legge 820 che istituiva non il tempo pieno ma posti docenti per ‘attività integrative pomeridiane’ e ‘insegnamenti speciali’. Una formula che venne totalmente rovesciata dalla mobilitazione di insegnanti, famiglie, associazioni e sindacati attraverso lotte che portarono alla formula organica con due insegnanti, attività ‘strumentali’ e laboratori, alternanza dei due docenti senza separatezze mattina-pomeriggio, anche sulla base delle preoccupazioni espresse da pedagogisti quali De Bartolomeis.

De Bartolomeis lucidamente metteva in guardia dai rischi e dagli ostacoli.
[…] Si chiede (alla ricerca) di fare proposte attuabili. Ma a chi? A una classe politica che ha come programma di attuare soltanto la perpetuazione del suo potere di parte. […] L’avvio del tempo pieno nel nostro paese non promette sostanziali rinnovamenti, anzitutto a causa di un tipo di organizzazione sociale che non può esprimere una scuola che lo neghi. Effetti di questo impedimento di base sono, tra l’altro, l’assenza di una impostazione sperimentale, di un piano e di iniziative per la riqualificazione degli insegnanti o per la formazione di nuovi insegnanti, la permanenza della gerarchizzazione tra materie fondamentali e attività integrative. Se manca un rapporto critico con i problemi di radicali mutamenti sociali e politici, entra nel gioco delle deformazioni e delle riduzioni didattiche la richiesta, del resto generica, di definire nuovi contenuti e nuovi metodi, e di provvedere a una diversa organizzazione dello spazio educativo. […] Questa la contraddizione più grave: la scuola di una società classista dovrebbe lavorare contro il classismo.

Alcune delle condizioni per un tempo pieno che quanto meno limiti i danni di una scuola del consenso sono indicati da De Bartolomeis nell’ordine: […] considerare il modulo organizzativo della scuola in termini di struttura fisico-spaziale (aule laboratorio, spazi per la socialità,..)
[…] è in questione non l’insegnante singolo ma la progettazione educativa del gruppo di insegnanti e di altri esperti, e l’insieme dei materiali, degli strumenti e delle procedure indispensabili per l’attuazione
[…] i problemi dei rapporti interpersonali e della dinamica di gruppo. La trattazione di questi problemi richiede tra l’altro una competenza psico-pedagogica (conoscenze e abilità) capace di vedere nella cosiddetta normalità le difficoltà di adattamento, i conflitti, le contraddizioni, le frustrazioni, l’ansia, le difese dall’ansia,.ecc.
[] non una dilatazione dell’orario che lasci immutato tutto il resto: scuola senza classi, collaborazione degli insegnanti in compiti non solo di educazione ma anche di programmazione, grande varietà di attività,  conformità ai ritmi biopsichici, nuovi contenuti, ricerca, sostituzione delle aule  con i laboratori, vita sociale abolizione di un orario avverso ai processi di incubazione, a quella che possiamo chiamare creatività temporaneamente improduttiva
[…] la collocazione di ogni individuo nel sistema sociale, quindi la sua mobilità in esso, le aree di attività e di decisione che può raggiungere [2]

Forti di questo viatico, giovani insegnanti neoimmessi in ruolo, ci accingemmo all’opera. Con molti dubbi e interrogativi. Ad esempio. Quello che funzionava così bene nella classe di Mario Lodi o di Bruno Ciari, il piano di lavoro, la discussione, la corrispondenza, il testo libero, la stampa, il calcolo vivente, la ricerca… ma con ragazzi di ambienti molto disomogenei, classi numerose, in città, avrebbe funzionato lo stesso? E come si componeva con gli orari della nuova scuola, le attività di classe e i laboratori?

[1] Bronfenbrenner U. (2002) Ecologia dello sviluppo umano Il Mulino, Bologna
[2] De Bartolomeis F. (1972) Scuola a tempo pieno, Feltrinelli