L’amore per chi resta. Riti di passaggio

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone 

Da tempo volevo cercare di affrontare il tema dei processi che si articolano attorno all’esperienza del lutto e della morte, era nell’aria da mesi, era nei discorsi dei ragazzi, nei disegni dei bambini, nei visi inespressivi di chi mi parlava, esprimendo rassegnazione e senso di precarietà.
Poi ho incontrato Marybel dai dolci sorrisi, che mi chiedeva come preparare i suoi tre bambini alla incombente dipartita della nonna tanto amata, e l’urgenza è diventata necessità, ma una necessità che conteneva anche la chiave di lettura: l’amore per chi resta.
Spesso gli adulti, presi nella morsa del loro dolore e dalla negazione per difendersi da quanto sta accadendo, dimenticano la necessità del bambino di elaborare il proprio lutto.
Per proteggerlo dal dolore e dall’angoscia, cercano di tenerlo all’oscuro, a volte perfino d’ingannarlo su ciò che è accaduto o sta accadendo.
Il bambino può percepire però d’essere stato imbrogliato (A.Marcoli,2014), può imparare a non fidarsi dei grandi e a non mostrare il proprio vero sentire; può costruire teorie bizzarre sulla vita e la morte, a volte altamente patogene. Al contrario, il bambino, la bambina vanno supportati e accompagnati nel tempo e nello spazio per capire, esprimere ogni emozione (stupore, curiosità, dolore, angoscia, paura, rabbia, senso di colpa o d’impotenza…).
A volte possono persino pensare d’esser loro i ‘colpevoli’, allora occorrerà rassicurarli, parlar loro dell’inevitabilità della morte e del fatto che non verranno abbandonati a breve anche dagli altri adulti cari.

Costruire con loro riti di passaggio aiuta a costruire senso! Permettere loro di partecipare ai momenti commemorativi, può aiutarli ad imparare o ricordare che dopo la caduta delle foglie arriva sempre la primavera.
I momenti in cui ci si trova in famiglia, ad elaborare un lutto comune, sono preziosi per la loro forza integrativa nella mente di ognuno (C. De Gregorio 2011).
Rimangono in memoria come momenti tristi, ma, paradossalmente, anche felici. La mancata elaborazione del lutto invece può comportare malessere psichico duraturo e può avere conseguenze pesanti sulla salute mentale della persona e dei suoi discendenti, come risulta da ricerche e psicoterapie (P. Roccato 1995, 2013).
Durante un corso di formazione in ambito bioetico, con immenso dolore, un medico ci raccontò d’essere stato escluso, da bambino, dal poter partecipare al funerale del padre, di aver attribuito questa decisione alla madre e di averla detestata tutta la vita per questo. Con l’aiuto dei compagni di corso ragionammo sull’eventualità che la madre fosse stata mal consigliata e che nel pieno del suo dolore avesse inutilmente cercato di proteggerlo da ciò che già lei, probabilmente stava sentendo come insostenibile. Insieme, tra le lacrime, facemmo pace con quei suoi ricordi che purtroppo avevano condizionato in modo significativo la sua relazione con la madre. Gli augurammo di riuscire a recuperarne almeno una parte.
Favorire l’elaborazione del lutto è dunque fondamentalmente fare prevenzione primaria e ‘preparare un bambino ad affrontare gli avvenimenti dolorosi della vita vuol dire aiutarlo a camminare in modo più leggero verso il futuro’ (A. Marcoli 2014).

Con Marybel siamo arrivate un pochino in ritardo e ora la bimba mezzana sta patendo tutti i processi separativi, problematizza l’andata alla scuola materna, si aggrappa al nonno, è triste ed arrabbiata ma sta cominciando a ricevere alcune risposte dai genitori, guarda il cielo e nelle stelle ritrova la nonna, le sta dedicando un libricino con foto, disegni, ricette che sta raccogliendo insieme alla mamma. Ci vorrà del tempo per far pace con questo evento naturale ma inaspettato e prematuro.
Anche ora, dopo la pandemia servirebbe un rito di chiusura ed elaborazione di quello che abbiamo vissuto per più di due anni, proprio per circostanziare gli eventi nella loro eccezionalità.
Nei primi mesi di quest’anno, all’interno di un progetto a contrasto della dispersione scolastica, ho chiesto ai ragazzi di una scuola media di parlarmi delle loro preoccupazioni. È emersa una grande paura per il futuro imperscrutabile e per la possibilità che vengano a mancare i propri cari.

L’aver preso coscienza della realtà della morte, con immagini e conteggi 24 ore su 24 durante la pandemia, ha strutturato in loro una sorta di angoscioso terrore.
A questo purtroppo si aggiunge anche la ricezione continua di stimoli e informazioni dai social, ad altissima velocità, cui sono esposti, e che accorcia enormemente i tempi del presente e del futuro, sollecitando con urgenza il soddisfacimento dei bisogni e la realizzazione degli obiettivi, con aspettative altissime.

Le ricadute più frequenti però sembrano essere una quasi totale perdita di senso e una caduta energetica vistosa, in alcuni casi persino estrema, come ci indicano i dati crescenti relativi ai suicidi.
A volte, raccontano, scappa il senso dalle giornate, sembra non esserci un buon motivo per muovere un passo, parlare, sorridere. Si sente il bisogno disperato di saper cosa fare per ricominciare, per smettere di sopravvivere ma fuori nulla li attrae o li accende. Spesso si rischia di pensare di non essere amati, ma in realtà non si sta più amando e questo genera distanza sociale. Si dice che per superare le crisi sia necessario attraversarle, guadarle, ma in quei momenti sembrano paludi stagnanti, senza possibilità di movimento. Sembra che nessuno possa aiutarli, passargli il boccaglio con l’ossigeno.

Lo racconta proprio così Federica, giovane neolaureata in cerca di prospettive in questo momento di stagnazione economica.

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Le fronde degli alberi che si muovono cullate dal vento mi regalano sempre una gioia profonda. Questo però durante il giorno. Di notte quel fruscio mi mette inquietudine, come se qualcosa di strano o minaccioso si stesse avvicinando. Un po’ come il Nulla di Fantasia.
Questa metafora non è scontata nel momento in cui mi trovo a fare i conti con un profondo radicamento a terra dei miei piedi, mentre il mio sguardo ha introiettato una visione esterna, periferica, quasi aerea sul mondo. Lucida e a volte disillusa. Preoccupata e un po’ rassegnata. Mi sembra di essermi accorta che viviamo tutti in una finzione o in tante finzioni, che poco valga la pena, che questa vita e questo pianeta poco hanno di definito e sono preda delle coincidenze, del caso, così come lo siamo noi e i nostri destini. Poco è certo, se non che questa vita smetterà di battere, quella dei miei cari anche, spero il più tardi possibile, e anche quella della nostra specie, una tra le tante, del pianeta.

Non sono, non siamo più il centro.
Questo mi fa sentire vagamente persa. Sto cercando di capire il momento in cui si è rotto qualcosa, e cosa sì è rotto. Se quando l’estate scorsa è morta la mia gatta Tigra o già prima, non saprei. Ho perso un po’ di senso e mi sembra di vedere tutto sotto una strana luce ridicola, come se quello che facciamo, costruiamo, viviamo non fosse che una copertura, un nascondere la vera realtà, la finitezza, l’insensatezza, l’incertezza.
Molte cose ancora mi danno benessere: una bella fioritura, gli uccellini, gli affetti e gli amici veri, forse l’unica ragione sensata, la danza ed i piaceri semplici, come la lettura, il sorriso di un’allieva, uno studio ben riuscito, le fragole.
Ma sono tipicamente più triste. Non ho perso la luce negli occhi ma se ne è aggiunta un’altra più spettrale. Nonostante questo continuo a rifugiarmi nella cura del cibo, del corpo, dei miei interessi e dei rapporti, nella preoccupazione sul futuro, sul lavoro…
Definire cosa sia il superfluo, capire se esiste un’essenza. Come si fa a vivere sereni dopo una scoperta così? Come hanno fatto filosofi e poeti? Forse l’accettazione di questa realtà, della malattia, del nonsenso, della povertà, della morte, del non controllo se non futile possono aiutare a vivere meglio…godendo dei piccoli piaceri transitori (se l’agnosticismo non mi inganna), del soddisfacimento di un bisogno proprio o dell’altro, della realizzazione di un compito ben svolto, del mare, dell’amore.
Mentre cerco il pezzo rotto, vorrei provare a soffermarmi di più, a contemplare, registrare immagini e sensazioni, amare più consapevolmente e più profondamente, tenere stretto ciò che posso, vivere; che è l’unica cosa che siamo nati per fare.
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Ho provato a spiegarlo ai ragazzini delle Medie, che si sentono isolati nelle classi, rifiutati, non visti. Spesso, loro stessi, evitano, non vedono, non parlano con i compagni, non permettono agli altri di conoscerli. Abbiamo costruito cartelloni con i loro desideri per il futuro, per una scuola nuova, per un lavoro un po’ più a misura d’uomo. Ora i loro lavori sono in mostra e speriamo contamino un po’ anche gli adulti!
Se notiamo qualcosa che non va, troppa rabbia, silenzio, sonno, apatia nei nostri vicini di vita, anche se purtroppo in questo momento siamo tutti un po’ a corto di energia psichica, proviamo a pensare che si può fare un po’ di staffetta, senza esagerare, ogni tanto prendendo fiato, mentre l’altro, arrancando guadagna qualche metro… Forse in due, in tre… forse insieme possiamo provare, galleggiando, nuotando a pelo d’acqua, a raggiungere l’altra riva, ma insieme, senza perderci troppo di vista.

Come ho consigliato proprio ieri ad una mamma turbata dal cambiamento umorale del figlio, in un contesto di vita connotato da frequenti lutti familiari, possiamo tentare di riempire ancora la nostra storia di vitalità, allargando lo sguardo sugli altri, sul mondo che pulsa.