Composizione geometrica di Gabriella Romano[/caption] di Nicola Puttilli Sta crescendo la sensazione che anche per la scuola la valanga di risorse che si sta riversando con il PNRR sia, appunto, soltanto una valanga, una massa imponente e inattesa destinata a sciogliersi nel tempo senza, praticamente, lasciare traccia. In questi mesi assistiamo al paradosso di dirigenti scolastici che lamentano l’arrivo massiccio e continuativo di finanziamenti, quasi sempre vincolati alla digitalizzazione, manifestando quasi il pudore di dover continuare a spendere per materiali e servizi di cui già si ha ampia disponibilità o, comunque, considerati non prioritari. Senza dubbio una singolare constatazione per un sistema che ha visto un progressivo e inesorabile depauperamento di risorse nell’ultimo trentennio. Ma il paradosso che colpisce maggiormente, nell’epoca della moltiplicazione dei progetti e dei progettifici, è proprio la mancanza di progetto. Il più grande problema della scuola italiana, sia in termini di equità sociale sia di freno allo sviluppo economico del Paese, è quello della dispersione scolastica e della forte disomogeneità nell’acquisizione di competenze fra i diversi territori (nord-sud, centro-periferie, ecc). Basta dare uno sguardo ai paesi che più e meglio di noi hanno risolto questo problema per capire che la chiave sta tutta in una didattica attiva, modulare, laboratoriale, attenta alla qualità della relazione. L’esatto contrario della didattica frontale e trasmissiva, inesorabilmente uguale per tutti, da sempre imperante nelle nostre scuole. Del resto c’è poco di che stupirsi, né più né meno di ciò che, dall’inizio del secolo scorso, hanno sostenuto tutti i pedagogisti più illustri , da John Dewey alla nostra Maria Montessori, fino a Célestin Freinet che ha, fra l’altro, ispirato quel Movimento di Cooperazione Educativa che ha fortemente contribuito all’unica vera riforma dal basso, la sola possibile, della nostra scuola. Trasformazione in senso democratico e ugualitario, suggellata ed enfatizzata dalla lettera di Don Milani, ma che ha avuto insormontabili limiti di natura storica e geografica. Ha infatti dato il meglio di sé tra i primi anni ‘60 e la fine degli anni ’70, soprattutto in alcuni comuni del nord decisi a investire in educazione nelle scuole materne, allora non ancora di competenza statale, con esiti di assoluta eccellenza (Reggio Emilia, Torino, Milano, Bologna, per citarne alcuni) e nella scuola elementare, di nuovo principalmente al nord, fino a produrre fondamentali provvedimenti legislativi come la legge 820 sul tempo pieno e la 517 sulla valutazione formativa e l’inserimento dei disabili. A distanza di molti anni non appare un semplice caso se negli ordini di scuola e nelle zone del Paese maggiormente toccati dall’innovazione didattica si registrano, ancora oggi, gli esiti migliori per la scuola italiana, anche nelle comparazioni internazionali per la primaria. Resta, d’altro canto, la percezione di come la forte spinta innovatrice di quegli anni abbia sicuramente lasciato tracce ben presenti nelle nostre scuole, ma non le abbia tuttavia modificate nel profondo e, soprattutto, in modo generalizzato. Sull’onda della destra governante assistiamo sempre di più a un’opinione pubblica che attribuisce, ideologicamente e senza alcun dato di fatto, al post ’68 tutti i mali, o quasi, della nostra scuola. Verrebbe da rispondere che di ’68 ce n’è stato troppo poco o che è finito troppo presto, non che ce n’è stato troppo. Al di là, infatti, di una buona dose di massimalismo e di velleitarismo, sicuramente controproducente ma quasi fisiologica in un movimento così massiccio e dall’esordio così tumultuoso, furono poste allora le premesse per un rinnovamento complessivo della nostra scuola che non hanno purtroppo trovato seguito nei decenni a venire. Ciò che è mancato, e che continua clamorosamente a mancare, è stata la canalizzazione delle molteplici spinte riformatrici in una visione di insieme e la sua traduzione in un progetto di medio- lungo termine. I principali nodi problematici della nostra scuola sono nodi storici e soprattutto fortemente interrelati, non si possono sciogliere singolarmente ma solo attraverso un approccio sistemico.
- Gli spazi di apprendimento: quasi tutte le nostre scuole sono predisposte per una didattica trasmissiva e frontale, spazi tutti uguali per ripetere all’infinito il rito della lezione collettiva, una palestra (non sempre e spesso inadeguata) per l’attività fisica, qualche spazio rimediato qua e là per i laboratori e un locale mensa nei casi più fortunati, quasi mai al sud. Le scuole italiane sono per lo più vecchie e insicure, nella maggioranza manca perfino il certificato antincendio. Non è procrastinabile un piano nazionale di rinnovamento e messa in sicurezza certamente molto impegnativo sul piano finanziario, ma di cui il PNRR può costituire un primo, importante tassello. La costruzione di nuove scuole o la riconversione e messa a norma di quelle esistenti dovrebbe considerare le esigenze di una didattica attiva e rinnovata; esperienze molto significative in questo senso, alle quali fare riferimento, esistono nel nostro Paese e soprattutto all’estero.
- La formazione del personale: la legge definisce la formazione come strutturale, obbligatoria e permanente ma, di fatto, non è così. I vincoli contrattuali limitano fortemente queste caratteristiche fino a ridurla a una sorta di benemerito volontariato. Le risorse, pur cospicue in questa fase, arrivano alle scuole in modo disorganico rischiando di convergere su iniziative non proprio prioritarie o nelle mani delle realtà più virtuose che meno ne avrebbero bisogno. Un serio piano nazionale richiederebbe obiettivi espliciti e dichiarati, finanziamenti adeguati e valide strutture di supporto alle scuole in grado di fornire progettazione ed esperti di qualità. C’erano una volta gli IRRSAE (Istituti Regionali per la Ricerca la Sperimentazione e l’Aggiornamento Educativo), a un certo punto qualcuno ha cominciato a sostenere che fossero inutili e costosi carrozzoni. Per quello che può valere l’esperienza personale ne ho avuto una percezione totalmente diversa e resto convinto che la loro soppressione fosse principalmente dovuta a mere ragioni di risparmio, piccola parte di quel taglieggiamento partito a metà degli anni ’90 e che ha portato, in quasi un trentennio, a praticamente dimezzare la quota di PIL destinato al sistema nazionale di formazione. Strutture simili, ovviamente rivisitate e adattate alle esigenze attuali, sarebbero invece di grande utilità.
- Gli stipendi e la carriera dei docenti: nella primavera del 2019 la commissione europea inviava una formale raccomandazione al governo italiano affinché provvedesse sollecitamente ad aumentare gli stipendi degli insegnanti, di gran lunga fra i più bassi di Europa. Da allora nulla è cambiato, i previsti e rituali aumenti contrattuali nel frattempo intervenuti non hanno in alcun modo colmato il divario, né introdotto alcuna realistica possibilità di carriera. Difficile pensare che una categoria frustrata sul piano stipendiale, oggetto di scarso riconoscimento sociale e lontana dalle attenzioni della politica possa partecipare con entusiasmo a un grande processo di cambiamento come quello che sarebbe necessario e senza gli insegnanti, l’esperienza lo dimostra, non si va da nessuna parte.