Rilanciare l’autonomia partendo dalla qualità del lavoro

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Pietro Calascibetta

“LA SCUOLA SI RIPRENDE LA PAROLA”

E’ sicuramente una buona notizia l’appello lanciato delle associazioni professionali AIMC-CIDI-MCE-PROTEO FARE SAPERE per rimettere in moto quel protagonismo del mondo della scuola che aveva contraddistinto gli anni ’70/80.
Allora si trattava di dare forma, metodologie e contenuti ad una scuola solo enunciata nella Costituzione e tutta da realizzare, oggi di rilanciare l’autonomia scolastica.
Ma perché è necessario “rilanciare l’autonomia”?

L’AUTONOMIA NON È UNA RIFORMA QUALUNQUE

L’autonomia che siamo chiamati a difendere fa parte di quelle riforme che sono state realizzate per attuare i principi della Costituzione.
In Italia il sistema scolastico del dopoguerra si è caratterizzato per una sostanziale continuità con il passato fascista e addirittura prefascista, fatta ovviamente eccezione per il maquillage degli elementi esplicitamente legati al regime tolti immediatamente.
Il dettato costituzionale ha cominciato ad attuarsi e a cambiare il nostro ordinamento scolastico solo negli anni successivi e per tappe attraverso quelle che noi chiamiamo sbrigativamente “riforme”.
Nello specifico gli organi collegiali hanno creato il quadro giuridico per “l’effettiva partecipazione” permettendo che la democrazia partecipativa da valore enunciato nell’ ultimo comma dell’art. 3 divenisse prassi anche nella scuola; l’autonomia scolastica a seguire ha creato il quadro operativo affinché la partecipazione non fosse solo formale dando “potere” e strumenti agli organi collegiali di adeguare la progettazione « ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti» nel territorio ponendo le basi per rendere possibile anche nella scuola un altro pilastro della democrazia: “l’autonoma iniziativa dei cittadini” (art.118); la rendicontazione sociale, lo Statuto delle studentesse e la valutazione di sistema attiene all’art.97 sulla trasparenza della pubblica amministrazione.
La difesa degli organi collegiali e dell’autonomia e la loro completa attuazione non è quindi la difesa di riforme qualunque o la riforma di questo o quel ministro, ma la difesa di norme che, pur con i loro limiti , incompletezze e lacune da emendare, hanno attuato la Costituzione rompendo la continuità con il passato facendo della scuola una comunità gestita in base ai principi democratici, una comunità di cui fa parte anche il dirigente con precisi vincoli molto più stringenti di quanto fosse a guardar bene prima dell’autonomia e durante il regime fascista. Questa è l’autonomia.
Chiarito il perché l’autonomia è così importante per la democrazia e che quindi bisogna far funzionare realmente queste “riforme” , bisogna chiedersi perché l’autonomia è in crisi.

LA CRISI E’ LA MANIFESTAZIONE DI UN DISAGIO REALE

Di fronte all’ importante compito di formare gli studenti ad affrontare le sfide sociali e dell’ambiente di domani che proprio l’autonomia avrebbe dovuto rendere più efficace, la scuola presenta oggi delle criticità che il manifesto elenca compiutamente.
La crisi della partecipazione agli organi collegiali; la crisi delle politiche delle riforme a fronte alla loro concreta applicazione; l’impoverimento delle relazioni interne in ciascun istituto che si esauriscono “in dinamiche prevalentemente individuali,”; il ripiegamento e l’isolamento di chi aveva “scommesso sull’autonomia“, insomma uno strisciante e generalizzato abbandono dell’impegno.
Per rilanciare l’autonomia credo che si debba necessariamente affrontare le radici di questa crisi e capirne il perché, non basta chiamare alla mobilitazione. Credo che il rilancio dell’autonomia parta proprio dal trovare delle proposte per superare questa crisi. Proposte, però, che vadano al nocciolo della questione.
La crisi nasconde un profondo disagio degli operatori della scuola che è maturato in questi anni per il modo con cui sono costretti a lavorare proprio nella scuola dell’autonomia su cui molti avevano “scommesso” e avevo contribuito a realizzare.
Una contraddizione molto dolorosa che spesso disorienta chi ci ha creduto veramente e ha lottato per essa.
Un disagio che, purtroppo, non è una fantasia alimentata dai media, un atteggiamento vittimistico di una categoria o una oscura manovra politica, ma una realtà tangibile perché si vive proprio sul piano professionale e sulla propria pelle.
Un disagio che si sta trasformando in deriva per la mancanza di un’iniziativa comune in cui riconoscersi .Un disagio che ha prodotto quel disimpegno e quel “ripiegamento” che rischia ora di aprire la strada a soluzioni populiste, particolaristiche e autoreferenziali facendo perdere la dimensione comunitaria del sistema scolastico e del lavoro nel proprio istituto esponendo la scuola al rischio di “derive autoritative se non, talvolta, autoritarie” come si paventa nell’appello.

IL RISCHIO DI BUTTAR VIA L’AUTONOMIA PER SBARAZZARSI DELLA CRISI

La tentazione di trovare una soluzione attraverso vie brevi è forte come forte è il disagio e concreto il rischio di “buttar via la stessa autonomia insieme a questa crisi”.
Aderire ad una dimensione regionale del servizio scolastico nell’ambito di un’autonomia differenziata può esercitare una certa attrattiva a fronte di un centralismo che invece di offrire all’autonomia una credibile governance di sistema, come puntavano le stesse norme, si barcamena tra il laissez faire e il dirigismo centralista come abbiamo ampiamente sperimentato anche durante la pandemia e come sta riprendendo piede oggi.
Può essere attrattiva anche l’idea di ridimensionare se non di archiviare gli organi collegiali, l’autonomia e le stesse riforme additate come la causa della burocratizzazione della scuola .
Il malcontento trova infatti nell’autonomia e nelle riforme ad essa correlate un facile capro espiatorio.
Tutta la lamentela sulla burocratizzazione della scuola è alimentata dal fatto che l’autonomia ha introdotto nel lavoro del docente una serie di attività di progettazione, di monitoraggio e autovalutazione oltre alla lezione d’aula che si sono trasformate attualmente in semplici adempimenti e non in attività significative e di conseguenza gratificanti sul piano professionale e riconosciute sindacalmente in modo adeguato come tali, come invece dovrebbero essere.
Non è un segreto ricordare che le critiche all’autonomia e alle riforme provengono anche da settori significativi dell’area democratica, alcuni ossessionati dall’idea che l’autonomia sia il cavallo di troia di una presunta aziendalizzazione della scuola, altri preoccupati che l’autonomia favorisca le scuole private, altri ancora contrariati agli obblighi di rendicontazione , di autovalutazione e valutazione dei risultati che la normativa sull’autonomia e sugli organi collegiali impongono nell’ottica della trasparenza e della partecipazione democratica nei confronti dei genitori e degli studenti e non certo per una logica puramente efficientistica come spesso si crede.
Il pensiero verticale porta poi a ritenere che il superamento della crisi possa passare attraverso la solita leva della formazione dei docenti che è sì una delle condizioni che permette l’autonomia, ma non il dispositivo per superare questo disagio che risiede altrove, come dirò più avanti, e colpisce più duro, se possiamo dire, addirittura il personale con maggiore formazione e più impegnato nelle attività necessarie a far funzionare la scuola perché si sente soverchiato dalle incombenze che si scaricano proprio su chi è più disponibile aprendo la porta ad un burnout diffuso.
Un’ altra via breve, anzi brevissima, è l’aumento dello stipendio, sicuramente sacrosanto, ma che sarebbe un modo per far tacere la categoria se non si toccano le condizioni di lavoro.
Se da una parte c’è il disagio del personale della scuola, dall’altro c’è un atteggiamento diffidente dell’opinione pubblica verso la scuola e i docenti dovuto ai risultati non particolarmente brillanti degli studenti e dalla situazione della dispersione e degli abbandoni che non segna una significativa inversione di tendenza, tanto che si deve ricorrere a misure straordinarie.
Tutto questo costituisce una formidabile sponda ai detrattori dell’autonomia.

MA LA SCUOLA IN CUI LAVORIAMO E’ VERAMENTE LA SCUOLA DELL’AUTONOMIA?

Scrive Berlinguer nella prefazione al volume «Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome» (a cura di M. Campione e E. Contu, Il Mulino 2020), “Bisogna essere chiari: è inequivocabile che questa sia ancora la fase di attuazione dell’autonomia; non si può infatti affermare che i vent’anni trascorsi […] abbiano già introdotto sufficiente autonomia nelle scuole».
Questa è un’affermazione politicamente rilevante che è necessario tenere presente nel momento in cui vogliamo parlare di rilancio dell’autonomia.
A questo punto viene da chiedersi. La scuola dell’autonomia è proprio quella che si vive tutti i giorni nella quotidianità dei propri istituti? Oppure quella che viviamo è la brutta copia di un’autonomia che ancora non c’è?
C’è il rischio che gli insegnanti stessi considerino un fallimento l’autonomia e le riforme successive senza averle sperimentate per come erano state pensate.
Berlinguer ci conferma che il processo di riforma del sistema, che lui ben conosce, non si è ancora compiuto del tutto.
Se le cose stanno così la prima cosa da fare per difendere l’autonomia è indicare chiaramente ciò che manca e chiedere con chiarezza che l’autonomia sia completata.

L’ AUTONOMIA INCOMPIUTA

Varato il Regolamento si è creduto o voluto credere che ormai la riforma fosse tutta lì e che bastasse applicare il Regolamento perché l’autonomia si realizzasse per incanto.
Chi per un motivo chi per un altro, chi in buona fede chi con il fine preciso di boicottarla non si è posto il problema di come il lavoro del docente sarebbe dovuto cambiare con l’introduzione della flessibilità sia rispetto agli studenti sia rispetto ai colleghi.
Guardando ciò che è avvenuto allora e la situazione in cui ci troviamo adesso ci si rende conto che il pezzo mancante riguarda proprio il lavoro, come se la professione docente fosse ancora un’attività individuale circoscritta nell’interazione tra il singolo docente e lo studente, orientata alla selezione di una classe dirigente e non un processo collettivo di formazione dei cittadini in cui la comunità scolastica e l’autonomia in sé ( se funzionano) diventano un vero e proprio dispositivo di apprendimento di competenze disciplinari e sociali per gli studenti e per gli adulti.
In particolare non si sono affrontate due questioni che sono determinanti per l’attuazione dell’autonomia.

L’ORGANICO COME RISORSA

La prima riguarda l’organico, cioè l’entità delle risorse umane necessarie al lavoro nella scuola. Appena dopo il varo del Regolamento prese l’avvio una sperimentazione nazionale che prevedeva al posto dell’organico tradizionale conteggiato in base ai parametri della scuola selettiva, l’assegnazione alle scuole di un organico in base al “progetto di autonomia” degli istituti cioè conteggiato in base ai bisogni metodologici necessari nello specifico contesto di ciascun istituto in base all’utenza.
Ci si era resi conto evidentemente che la flessibilità organizzativa e didattica avrebbe richiesto la disponibilità di un organico più ampio di quello strettamente necessario alle lezioni a classe intera e tradizionalmente assegnato in base alle classi da coprire e alle ore curricolari di ciascuna disciplina, un nuovo organico che sarebbe servito per la predisposizione di nuovi contesti di apprendimento con un tempo più lungo, non con attività extracurricolari (vedi doposcuola, recupero o L.A.C.) come si vuole fare oggi, ma per rendere possibile quella riorganizzazione del curricolo disciplinare prevista dal Regolamento, l’operativizzazione del curricolo, la personalizzazione, l’individualizzazione, la sperimentazione e la ricerca.
Lo stretto legame tra organico, organizzazione del lavoro e successo formativo era stato ampiamente dimostrato dalle scuole nelle esperienze di avanguardia degli anni ’70.
Una proposta di organico però subito sepolta e finita nel dimenticatoio, ripresa solo dalla “Buona scuola”, ma, tra un compromesso e l’altro, solo come potenziamento condizionato dall’entità delle quote di personale rimaste a disposizione nelle graduatorie di ciascuna disciplina dopo le assegnazioni ordinarie. Qualcuno direbbe “con il personale residuale” alla faccia del rispetto della professionalità di quei docenti e dei bisogni progettuali delle diverse realtà scolastiche.

IL LAVORO E’ CAMBIATO

La seconda questione riguarda più propriamente le modalità di lavoro dei docenti.
Che ci fosse allora la consapevolezza che l’autonomia avrebbe comportato un’innovazione anche nel lavoro dei docenti è testimoniato addirittura da quanto leggiamo nella piattaforma unitaria di allora dei sindacati (“Un contratto per la scuola dell’autonomia”, Piattaforma CGIL – CISL – UIL Scuola , 2002 – 2005, 13 Giugno 2002) dove si sottolinea proprio la necessità nella scuola per l’attuazione dell’autonomia di “ un’attività organizzata su modelli di lavoro differenziati, professionalità articolate, itinerari di ricerca continui in un contesto relazionale che, oltre a valorizzare l’impegno individuale dell’insegnante, si connoti con una dimensione cooperativa.”
Ancora Berlinguer scrive nel volume citato che l’autonomia è nata per realizzare nella scuola un contesto di lavoro capace di «produrre ricchezza intellettuale, sperimentare metodologie, di fare della partecipazione una condizione essenziale», in altre parole per valorizzare chi vi lavora e gli stessi utenti, studenti e genitori presenti in base al dettato costituzionale in quanto membri della società civile e portatori anch’essi di cultura.
Questo avrebbe comportato prendere in considerazione un orario di lavoro del docente in cui la docenza, le attività di tutoraggio degli studenti, di confronto con le famiglie e di progettazione, monitoraggio, ricerca e sviluppo tra colleghi potessero avere la stessa dignità ed essere messe sullo stesso piano dell’insegnamento in aula.
nascondere il problema di come affrontare l’autonomia sul piano del lavoro sotto il tappeto dei tagli al bilancio senza che nessuno mettesse un limite a questo depauperamento della scuola ha compromesso in modo irrimediabile la “dimensione cooperativa” , la ricerca di nuovi contesti di apprendimento e ha di fatto ristretto l’autonomia alla didattica d’aula facendo credere che la flessibilità nei programmi e nelle metodologie anche con l’aiuto delle TIC fosse sufficiente a raggiungere le finalità che l’autonomia voleva perseguire, confondendo l’autonomia didattica con quella che si chiama libertà di insegnamento.
Una responsabilità anche dell’area democratica. Ciò che è stato sacrificato è stato il “core” dell’autonomia e la vera novità: l’autonomia organizzativa, di sperimentazione, ricerca e sviluppo che richiede tempi e spazi adeguati per realizzarsi.
Se guardiamo con attenzione tutte le riforma successive constatiamo che sono state pensate sulla premessa che ci fosse nella scuola lo spazio e il tempo di agire la “dimensione cooperativa” della professione, da qui la difficoltà oggi nella loro applicazione concreta (ad esempio per i professionali o per l’inclusione)
La realizzazione e il monitoraggio del PDP, del PEI e del Progetto individuale, del Progetto formativo individuale, del Progetto orientamento del PCTO, del curricolo trasversale di educazione civica ecc. ecc., solo per fare qualche esempio, da progettazioni e strumenti operativi di lavoro per i docenti diventano adempimenti con crocettati e taglia e incolla da mettere a verbale e archiviare.
Chi li fa come dovrebbero essere fatti ( e sono in molti per fortuna ) lo fa attraverso il lavoro volontario, al massimo con una mancetta in busta paga.
L’autonomia ha finito per prendere la fisionomia di un decentramento di funzioni amministrative ed è spesso diventata un modo per scaricare sui collegi e i dirigenti la responsabilità dei risultati senza dare né le risorse umane né gli strumenti organizzativi per gestire la flessibilità e la progettualità richiesta dalle norme. Anche i distacchi dei docenti che una volta venivano dati alle scuole per seguire i progetti (segno che erano necessari) sono stati subito eliminati in cambio di…niente.
In altre parole l’autonomia ha dovuto muoversi nelle strettoie di una struttura e di un’organizzazione del lavoro che fa riferimento al modello gentiliano diventandone prigioniera.
Un autonomia fatta con i fichi secchi. Una categoria umiliata due volte sul piano professionale.

QUANDO IL LAVORO E’ DI SERIE A E QUANDO DI SERIE B

Le riforme assegnano un ruolo centrale ai contesti collegiali, al consiglio di classe, ai dipartimenti disciplinari e ad una serie di figure il cui elenco si allunga ogni anno tra cui il coordinatore di classe, illustre fantasma, non previsto neppure da una norma, ma fondamentale per fare del consiglio di classe una vera équipe che può occuparsi della dispersione.
Il coordinatore di classe vale dunque meno del tutor dell’orientamento a cui si vorrebbe riconoscere un punteggio extra per i trasferimenti? I docenti con 9 o 6 classi. che spesso sono i docenti delle aree di indirizzo nelle superiori, non possono materialmente esercitare la “dimensione cooperativa” costretti a passare da una riunione all’altra e a cui si chiede di fare il tutor del PCTO.
Manca uno stato giuridico del personale a misura dell’autonomia, una modalità di comporre gli organici che permetta realmente l’autonomia progettuale, un ordinamento e delle figure professionali che possano essere messe in grado a ciascuno di poter svolgere il proprio lavoro in modo conforme ai compiti richiesti dall’autonomia, un contesto in cui ciò che si impara nei corsi di formazione si possa realmente applicare.
Mentre l’autonomia richiederebbe una collaborazione tra docenti posti sullo stesso piano e un lavoro di pari dignità indipendentemente dai compiti svolti, nella realtà l’unico lavoro riconosciuto professionalmente è quello di cattedra mentre tutto il resto e accessorio, aggiuntivo e soprattutto facoltativo mettendo in difficoltà non solo i dirigenti, ma anche gli stessi collegi e chi ha a cuore la scuola.
Gli aspetti strutturali e organizzativi rappresentano i nodi più delicati nell’attuazione dell’autonomia e delle riforme perché da questi dipende la qualità delle prestazioni professionali in aula e di conseguenza i risultati degli studenti, ma questo sembra non si possa più dire, non a caso i testi di Piero Romei non sono più neppure nella bibliografia dei concorsi.
Rilanciare l’autonomia richiede che ci sia una proposta per “liberare” finalmente il lavoro in modo che possa adattarsi in modo compiuto all’autonomia e alle riforme successive.

IL RUOLO DELLE ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI

In questi anni quando si pronuncia la parola “ lavoro” si pensa subito al contratto e non allo stato giuridico e ai compiti che la normativa assegna ai docenti e ai dirigenti dai quali dipende in realtà la qualità del lavoro. L’organizzazione viene vista più da un punto di vista sindacale che professionale confondendo spesso i due piani che vanno affrontati separatamente anche se ovviamente ciascuno è in relazione con l’altro.
Ancora una lettura della piattaforma contrattuale del 2002 chiarisce bene questi due piani.
“ Le risorse vanno attribuite direttamente alle scuole per la individuazione e la gestione delle funzioni obiettivo al fine di valorizzare e sostenere la flessibilità progettuale delle scuole […]
Per quanto riguarda, invece, le figure di sistema: uno specifico intervento legislativo dovrà prevedere la loro istituzione, le modalità di selezione, il reclutamento e la dotazione organica. Solo successivamente il contratto potrà definirne i regimi orari e gli inquadramenti.”
Una precisazione importante. L’idea della necessità di un Middle Management ante litteram.
Per rilanciare l’autonomia mettendo in primo piano il lavoro nella sua interezza e non solo la didattica è necessario chiedere alla politica e al legislatore di ridefinire lo stato giuridico dei docenti su “modelli di lavoro differenziati” e “ professionalità articolate” funzionali ai nuovi compiti che l’autonomia e le riforme richiedono nella loro attuazione.
Oggi questa esigenza è ancor più presente di quanto fosse allora perché sono state introdotte nella scuola una dopo l’altra delle nuove figure che non possono che essere definite di sistema perché devono essere obbligatoriamente presenti in tutte le scuole con gli stessi compiti e nulla hanno a che fare con le funzioni strumentali legate alla specificità dei diversi istituti come il contratto del 2002 ben chiariva.
Il ruolo delle associazioni professionali può essere a questo punto molto importante per aprire una riflessione sul lavoro nella scuola e sulla sua articolazione sulla base degli effettivi compiti che la normativa assegna al personale scolastico per capire quale assetto ordinamentale dovrebbe avere la scuola perché questi compiti possano essere assolti in modo efficace senza mortificare la professionalità di nessuno.
Le associazioni possono avere un ruolo determinante per formulare alla politica delle proposte che valorizzino la professionalità dei docenti.
Le esperienze pluriennali di scuole come l’Istituto Rinascita di Milano, Scuola Città di Firenze e don Milani di Genova, per citare quelle che conosco meglio, essendo sperimentazioni non solo didattiche, ma strutturali ( che lavorano fuori ordinamento per intenderci) hanno potuto individuare dei modelli che possono offrire sicuramente delle idee al dibattito che si vuole animare, ma ciò che è importante e che i tavoli interassociativi che si chiede di costituire nelle scuole possano, sulla base dell’esperienza che il personale vive quotidianamente elaborare una proposta di un nuovo stato giuridico e di un ordinamento che possa permettere di innovare l’organizzazione dando dignità al lavoro.
Ridefinito il contesto in cui operare diventerà determinante il ruolo del sindacato per trovare il modo migliore per tutelare il personale attraverso una revisione contrattuale in grado di riconoscere questa nuova dimensione del lavoro del docente sul piano economico e della carriera.
Invertendo la sequenza il risultato purtroppo cambia di molto.