Il diritto al disagio e la sua rappresentazione. La fuga dai licei

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di Piervincenzo Di Terlizzi  – dirigente scolastico ISIS Zanussi – Pordenone
e Aluisi Tosolini – filosofo dell’educazione

Un ampio articolo a pagina 21 de “Repubblica” del 30 marzo 2023 pone l’attenzione sulla “fuga dai Licei”, cioè sul numero significativo di richieste, ad anno scolastico in corso, di trasferimento in uscita da alcune delle scuole più note delle maggiori città italiane. L’ansia che “devasta”, dice il richiamo del titolo, appare la causa di questo fenomeno.

La narrazione giornalistica della scuola italiana, si sa, ha come centro dell’attenzione i Licei di Roma e Milano e (meno frequentemente) degli altri centri principali: pure questo articolo ne è conferma, individuando, tra le cause possibili della questione, la (nuova, attuale) fragilità degli studenti di fronte alle (usuali) difficoltà richieste dallo studio impegnativo.

Sembrerebbe, dunque, che in buona parte di questi casi la scelta conseguente sia quella di cercare contesti in cui si studi “meno”.
Questa interpretazione, oltre che riduttiva rispetto ai casi individuali di disagio e fragilità, oltre che generica (è una spiegazione che può andare bene in tanti altri tempi e contesti) è anche ingenerosa nei confronti delle altre scuole, e pare basarsi implicitamente sul trito e insuperato assunto socioculturale per cui esistano i contesti “di serie A” (Licei) e quelli “di serie B, o C” (Tecnici e Professionali).

Sennonché, il disagio non pare pensarla alla stessa maniera, e non è di serie A o B o C: se allarghiamo appena un poco lo sguardo, o se, giornalisticamente, andiamo a interrogare chi lavora in scuole che non siano i Licei delle grandi città, il tema si ripresenta anche nelle scuole degli altri ordini, ed anche nelle fasce di età minore, e non si lascia risolvere con la retorica dell’”arrendersi al primo ostacolo”.
C’è disagio all’Università, come hanno segnalato gli stessi studenti all’apertura dell’anno accademico a Padova.
E c’è disagio anche ai Tecnici e ai Professionali, potremmo dire, semplificando; ma è, appunto, una semplificazione, e piuttosto abbiamo da chiederci che cosa stia accadendo di nuovo.

Due rapporti fanno luce sul disagio oggi in Italia

Prendiamo, a tal proposito, due documenti usciti quasi contemporaneamente, in questi stessi giorni: il dossier dell’Ufficio scuola della CEI, intitolato “In pieno inverno. Disuguaglianze e fragilità nel sistema educativo” (link) ed il Rapporto Disuguaglianze della Fondazione CARIPLO, sottotitolato “Superare gli ostacoli nell’età della formazione” (link). Entrambi mettono il lettore a contatto con la dura e stratificata dimensione delle ragioni del disagio attuale: economiche, sociali, familiari.
Leggiamo ad esempio, dal primo testo, questa considerazione, basata su uno studio dei comportamenti degli studenti toscani dopo la pandemia: “In chi già viveva una situazione di marcata privazione di opportunità, come nel caso di molti studenti degli istituti professionali, è presumibile che la pandemia abbia indotto cambiamenti meno evidenti che non in chi, invece, prima dell’emergenza poteva contare su risorse tali da consentirgli di coltivare una progettualità futura che adesso rischia di venire meno” (p. 23). La questione pare, ragionevolmente (e inquietantemente) spostarsi sulle attese per il futuro, sull’idea stessa di futuro possibile da parte degli studenti. Dal secondo testo, cogliamo questa osservazione di Valentina Amorese (p. 75): “Stiamo quindi assistendo ad una crescita delle distanze nelle prospettive di vita delle persone. Questa tendenza contribuisce a costruire e rafforzare un contesto di frammentazione all’interno del Paese”, che ci mette di fronte ad un altro aspetto fondamentale di cui le manifestazioni di disagio sono una sorta di termometro: la polverizzazione delle esperienze, con una perdita secca degli spazi (esteriori ed interiori) di socialità.

Frammentazione, crisi del senso e disuguaglianza  

La frammentazione sociale e la crisi di senso di certo ha anche a che fare con l’aumento delle disuguaglianze attestate in modo plastico da due infografiche, la prima ripresa dal dossier Caritas ( pag. 5) e la seconda dal XIII Atlante dell’infanzia a rischio pubblicato a novembre da Save the Children (link – pag. 30)

Ma di tutto questo, ovviamente, non è il caso di parlare, per non disturbare il manovratore e la classe dirigente (i cui figli, come dice l’articolo di Repubblica del 30 marzo, frequentano i licei dove si è scoperto esistere il disagio).

Allargare l’orizzonte

Se poi vogliamo allargare l’orizzonte possiamo scorrere le pagine del rapporto The state of the global education crisis: a path to recovery frutto della collaborazione tra Unesco, Unicef e Banca Mondiale pubblicato nel 2021 (link). Il rapporto è stato poi ampiamente confermato dallo studio ONU 2022 sul livello di raggiungimento dell’Obiettivo n. 4 dell’agenda sostenibilità (Istruzione di qualità per tutti – link -) che possiamo riassumere nei seguenti dati riferiti a inizio 2023:

  • nel mondo, sei bambini su 10 dell’età di dieci anni non sono in grado di leggere e comprendere una semplice storia;
  • 244 milioni di bambini e adolescenti non vanno a scuola
  • 617 milioni di bambini e adolescenti non sanno leggere e non hanno le competenze matematiche di base;
  • meno del 40% delle ragazze nell’Africa sub-sahariana completa la scuola secondaria inferiore e circa quattro milioni di bambini e giovani rifugiati non vanno a scuola.
  • si stima che 147 milioni di bambini abbiano perso più della metà dell’istruzione in classe negli ultimi due anni a causa della chiusura delle scuole causata dalla pandemia COVID-19
  • la percentuale di giovani che completano la scuola secondaria superiore è passata dal 54% nel 2015 al 58% nel 2020, con un rallentamento dei progressi rispetto al quinquennio precedente.
  • la maggior parte dei Paesi non ha raggiunto la parità di genere nella percentuale di bambini che soddisfano gli standard minimi di apprendimento in lettura e nel tasso di completamento della scuola secondaria inferiore[1];
  • Nel 2020, circa un quarto delle scuole primarie a livello globale non aveva accesso a servizi di base come elettricità, acqua potabile e servizi igienici di base.
  • Circa il 50% delle scuole primarie ha accesso a servizi come le tecnologie dell’informazione e della comunicazione e le infrastrutture adatte ai disabili.
  • Nel 2020, circa 12 milioni di insegnanti di scuola pre-primaria, 33 milioni di insegnanti di scuola primaria e 38 milioni di insegnanti di scuola secondaria lavoravano nelle classi di tutto il mondo e l’83% degli insegnanti di scuola primaria e secondaria avevano ricevuto formazione adeguata
  • nel corso dell’emergenza Covid solo il 20% dei Paesi ha intrapreso misure significative per fornire ulteriore salute mentale e supporto psicosociale agli studenti dopo la riapertura delle scuole;

Supporto psicologico?

Eccoci, fermiamoci a questo ultimo dato, riferito al supporto psicologico che anche in Italia è stato ampiamente attivato in tempo covid e che ancora oggi è alla base di molti percorsi pensati entro il PNRR anti dispersione.
In questo caso la domanda deve essere precisa e radicale: il supporto psicologico a che cosa serve e deve servire? A rendere sopportabile questa scuola a questi studenti? Quasi un antidepressivo anestetizzante rispetto al disagio imperante?
Oppure a cambiare questa scuola per renderla luogo nel quale iniziare a prendere davvero in mano il proprio futuro per costruirlo assieme, diverso?

Il disagio ha infatti a che fare proprio con l’idea di futuro, o della sua precarietà e, addirittura, mancanza.
Mancanza di futuro e spazi di socialità infranti: sono profonde domande di senso, che si possono verificare, del resto, anche in coda al supermercato.
Il “disagio” degli studenti non si semplifica con un movimento tra una scuola e un’altra, perché è il nostro disagio.