I figli e gli allievi perfetti che vorremmo

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STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE


di Monica Barisone

Ci aspettiamo veramente tanto dai nostri ragazzi. Dovrebbero riuscire ad andare nelle scuole che noi non abbiamo frequentato, portare buoni voti col minimo sforzo, saper fare le scelte giuste già da piccolini, frequentare gli amici consoni a status e interessi, amare in modo equilibrato, essere sportivi con esiti eccellenti e almeno un po’ artisti. Si vorrebbe cioè il trionfo della prestazione sulla giocosità, dimenticando quanto quest’ultima sia di sostegno alle funzioni relazionali, sociali, affettive e cognitive (Di Quirico, 2016).

Che fatica per i figli! Che ansia dover a malincuore manifestare i propri limiti! Ai loro giovani occhi, i genitori, sembrano non reggere l’impatto con la realtà, con gli esiti medi o talvolta scarsi, dei nostri figli. Nella loro fragilità, i genitori credono ingiusti quei risultati modesti, incongrui rispetto all’impegno che si sforzano di impiegare nel garantire le condizioni ritenute ottimali per il loro sviluppo.

La preoccupazione dei ragazzi di oggi è quindi proprio quella di deludere tutti gli adulti di riferimento, genitori, insegnanti, allenatori…Le nuove generazioni non si ribellano, non fanno rivoluzioni. Il senso di inadeguatezza è a volte così bruciante da far pensare che l’unica possibilità di sopravvivenza sia il ritiro sociale.

Siccome per noi adulti possedere un lavoro oggi sembra ancora rappresentare l’unica competenza a vivere necessaria, nella manifestazione del valore personale dei nostri ragazzi tendiamo a porre al centro solo il rendimento scolastico e sportivo, unitamente alla loro competenza a socializzare. Timidezza e riservatezza sono bandite e considerate falle di produzione, dimenticando che, se queste caratteristiche umane sono sopravvissute nel tempo, significa che all’occorrenza potrebbero risultare delle risorse, ad esempio per proteggersi dai male intenzionati. Il mito odierno prevede che i nostri cuccioli e adolescenti siano soprattutto performanti ma questo significa anche sviluppare grandi competenze nella gestione dell’ansia. Queste però raramente gliele insegniamo!

Lo scorso anno mi è stato chiesto di fare un intervento in una classe III elementare proprio sulla gestione delle emozioni. Le insegnanti avevano intercettato segnali di fatica da parte dei bambini (tic, scatti d’ira, cefalee, minzione frequente…) a fronte dell’occorrenza di molte attività extrascolastiche svolte dai bambini ed elevate aspettative genitoriali.

Ho incontrato i bambini per capire di cosa avessero bisogno, quali emozioni li mettessero maggiormente in difficoltà e con grande disponibilità e generosità mi hanno parlato soprattutto delle loro ansie: la preoccupazione di non mettere nello zaino ogni mattina o sera tutti i materiali necessari e anche quelli imprevisti; il sentirsi in colpa per il mancato raggiungimento di risultanti vincenti nelle attività sportive, culturali e musicali, oltre che scolastiche; lo sgomento nel ricordare al risveglio o scoprire all’ingresso a scuola, di non aver svolto un compito.

Ci abbiamo lavorato insieme cercando di costruire strategie di fronteggiamento. Siamo partiti dalla presa di consapevolezza che non è sbagliato provare emozioni di disagio, ma è utile controllarle, cioè elaborarle e reagire in modo sano e utile. Nella classe solo una bambina ed un bambino disponevano già di pattern comportamentali appresi e, proprio grazie ai loro suggerimenti, è stato possibile riflettere insieme sulla possibilità di riprendere il controllo di sé stessi, di modificare le proprie reazioni[1], per esempio a partire dalle modalità che vengono utilizzate in famiglia o da compagni ed amici. Già con bambini di otto anni si può dunque affrontare con serietà e profondità la complessità della gestione delle emozioni.

Risulta invece sinceramente difficile, talvolta, svelare agli occhi ansiosi di mamma e/o papà, o disincantati degli insegnanti, la ricchezza di gesti, pensieri, emozioni, valori che animano questi cuccioli d’uomo ingaggiati nell’avventura della vita.

Anche nel mio lavoro di sportello d’ascolto con gli insegnanti, una delle fasi del colloquio di maggiore efficacia, risulta proprio essere quella della ricerca di ciò in cui il bambino riesce bene, è competente o risulta gratificato, o manifesta ambizione. Questi sono gli spazi del lavoro più produttivo perché portano a modificare l’immagine stessa che abbiamo della bambina o del bambino, ma anche della nostra relazione con lei o lui, e quindi persino l’immagine di noi stessi nella relazione con loro. Una magia miracolosa. Come sottolineava Alba Marcoli (2009), ‘la relazione genitori-figli (adulti-bambini) è un laboratorio’ naturale di ricerca quotidiana sull’esistenza, ‘che trascende le singole età, culture, storie di vita e appartenenze sociali’. Ricordo ancora oggi una mamma che, commossa, era tornata in colloquio proprio per ringraziarmi di averle fatto scoprire chi fosse suo figlio: non era più il mostro che mi aveva descritto e che era arrivata al punto di detestare, ma un ragazzino affettuoso e disponibile a relazionarsi con lei! I loro occhi si erano incontrati e si erano visti l’un l’altra. Aveva vinto la curiosità di conoscersi davvero. Spesso smettiamo di guardare e vediamo solo difetti attesi perché temuti, familiari, irrisolti.

È che tutti, grandi e piccini, siamo fatti di pieni e di vuoti – come dovette ricordarmi un giorno l’insegnante di mio figlio – e questa regolare irregolarità è da sempre la nostra bellezza!

[1]Non rimuginare, abbandonare l’idea di dover controllare o risolvere tutto, tollerare l’incertezza, migliorare la situazione attuale.