STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE
Il bambino cui ballavano le letterine
di Monica Barisone
Quando lo incontrai, solo pochi sapevano cosa fossero i disturbi specifici di apprendimento, gli addetti ai lavori, mentre io non ne sapevo quasi nulla. Fabio era reduce da lunghissimi anni di incomprensioni e fraintendimenti con le insegnanti che ormai lo consideravano un pigro e arguto ribelle. I suoi genitori, invece, ne percepivano soprattutto la fatica e il disorientamento, non riconoscevano il loro bambino in quella fotografia che veniva loro mostrata. Qualcosa non tornava e non riuscivano ad arrendersi: volevano a tutti i costi aiutarlo.
Lo incontrai con preoccupazione perché la vicenda si presentava già come confusa e contrastante. Dopo qualche incontro, passato a rovistare tra le sue competenze relazionali, alla ricerca di qualche falla, dovetti arrendermi. Fabio era socievole, perspicace, simpatico e curioso e l’idea che me ne stavo facendo non si incastrava per nulla nella casella suggerita dagli insegnanti. Sapevo bene che proprio a causa di questa incongruenza anch’io non mi sarei arresa facilmente. A malincuore provai ad avventurarmi in un terreno non proprio di mia competenza e gli chiesi di spiegarmi con la massima accuratezza, cosa succedesse quando si approcciava a lettura, scrittura e far di conto. Con encomiabile pazienza iniziò a spiegarmi che, nonostante il suo impegno e la sua concentrazione, quando si accostava ad una parola, ad una frase, le letterine non volevano saperne di star ferme e piuttosto sceglievano di cambiare continuamente di posto, impedendogli di comporre una parola o una frase in modo definitivo.
Si trattava di una guerra di posizione da cui Fabio usciva stravolto, senza aver ben compreso il testo che stava leggendo o il problema che avrebbe dovuto risolvere. Avevo capito! Lui non era dispettoso, sfidante, provocatorio! Era costantemente ingaggiato in una lotta impari per cercare di acchiappare il senso di ciò che doveva risolvere, da mattina a sera! Capii che lui e la sua famiglia erano dei supereroi!
Ne avrei incontrati ancora molti altri nel corso del mio lavoro, ingaggiati in gare di sopravvivenza e corse ad ostacoli allestite a volte per restituire ad altri fatiche sperimentate nella propria storia professionale o personale.
È passato poco più di una decina d’anni. Nonostante tutte le trappole disseminate sul percorso, Fabio si è da poco diplomato con una tesina unica ed originalissima nel suo settore. A suo tempo mamma e papà invece avevano trovato la forza ed il coraggio di fondare un’associazione di genitori di bambini con DSA e costruito con le istituzioni uno spazio loro dedicato, tuttora funzionante!
E oggi? Oggi si sa molto di più sulle diverse modalità di funzionamento nell’apprendimento e mentale in senso lato. L’accesso alle certificazioni di queste modalità è diventato abbastanza celere e le classi sono diventate splendide costellazioni di esigenze formative specifiche. Oggi i ragazzi stessi tentano l’autodiagnosi, arrabattandosi tra i materiali orbitanti in rete e le modalità didattiche che affannosamente cercano di evolversi. Accade però anche che le certificazioni non vengano lette o comprese, che si fatichi a raccordare le informazioni, che i linguaggi dei diversi interlocutori dissonino. Oppure accade che la certificazione diventi, per un ragazzo o una ragazza, un cappello da appoggiare sulla testa e calcare bene sulle orecchie perché possa finalmente segnalare a sé stessi e agli altri un nome per definirli e per poter accedere ad una identità fino a quel momento dispersa. Il rischio, come ripete costantemente lo psicologo evolutivo Matteo Lancini, è però quello di produrre un effetto specchio che possa contribuire a creare la loro personalità ancora in evoluzione.
Allora potremmo ipotizzare che l’arrivare o meno ad una diagnosi e con una tempistica più o meno rapida, rappresenti in realtà solo una sfaccettatura del problema, anzi della situazione. In un’epoca contraddistinta dall’individualismo estremo, sembra emergere di fatto, e a forza, il bisogno di definirsi in qualche modo, e non solo per chi esiste in modo divergente rispetto alle etichette convenzionali, o almeno per chi così si sente e si pensa. Come a dire: “sono così estranea ai discorsi dei compagni, alle loro scelte di vita nel tempo libero, ma anche estranea alle attese dei miei genitori e degli insegnanti da dover appartenere per forza a qualche categoria di disturbo cognitivo o mentale”.
A volte questi vissuti si riempiono addirittura di un’angoscia ed un dolore così intensi da scardinare la porticina dello stipetto degli anestetici più comunemente utilizzati: alcool, sostanze, farmaci, self cutting, regimi alimentari o sportivi rigidi, ritiro sociale…*
Allora, per noi adulti, stare accanto a loro diventa ancor più difficile, si avvia una lotta logorante tra lo ‘stare’ ma facendo finta di niente, e il ‘non stare’ ma trascinando con sé il macigno della responsabilità mancata. Alcuni decidono di ‘stare con loro’ nel disagio, molti di loro sono insegnanti o professionisti della relazione d’aiuto, che della delega, antica, a crescere i cuccioli d’uomo alla vita, hanno fatto una scelta di vita. Sono adulti che, come consiglia il pedagogista e sociologo Mauro Martinoni, riescono a guardare i bambini e vedere le farfalle che diventeranno, senza soffermarsi troppo sui bruchi e i loro bozzoli! Poco dopo la ripresa scolastica post pandemia Covid, per esempio, alcuni insegnanti di una Scuola Media mi hanno chiesto di attivare un corso di formazione, una specie di corso di primo soccorso per riuscire a fronteggiare le situazioni emergenziali che si trovavano a sperimentare coi loro ragazzi più in difficoltà. Gli anni di frequenza della Scuola Media rappresentano infatti nella vita di una ragazza e di un ragazzo, una fase particolarmente critica e generativa dal punto di vista evolutivo. Un periodo foriero di importanti svolte nella vita di ogni persona che si confronta oggi però con la dimensione estremamente rilevante del rebound della pandemia e della didattica a distanza, nonché con la crisi politico-economica europea e mondiale.
Questi fattori, in linea di massima fisiologici, se assommati, possono trasformarsi in importanti fattori di rischio di disagio sociale e psicologico. La sfida che ci potevamo porre era allora quella di prevedere, prevenire ma anche gestire le manifestazioni del disagio, da parte degli allievi e dei docenti, sin dai primi segnali e presagi. L’idea poteva essere allora quella di censire col personale docente le criticità ed i disagi già manifestatisi[1] o ancora in fieri, per predisporre patterns di strategie, procedure, comportamenti, azioni da mettere in atto per una gestione efficace delle future occorrenze, ma soprattutto per potenziare i muscoli che governano lo ‘stare con’ chi sta soffrendo o facendo fatica. Tra gli strumenti per trovare coi ragazzi delle soluzioni, ci potevano essere l’ascolto, la curiosità di scoprire chi si ha davanti, la ricerca avventurosa di un senso da dare a tutta quella fatica, il sogno di un futuro accessibile.
La novità è che i ragazzi oggi si sono aperti agli adulti, accettano di camminare insieme, di correre con una guida ‘anziana’ o ‘esperta’[2]. Allo stesso modo gli adulti di riferimento possono imparare insieme a bambini e bambine, ragazze e ragazzi, a diventare buone guide, chiedendo ciò che non comprendono e provando insieme a rispondere alle domande della vita. Oggi c’è uno spazio di fiducia relazionale che può diventare spazio di lavoro per provare ad uscire dai guai e dalle paranoie tutti insieme.
[1] attacchi di panico, atti auto/etero lesivi, fobie scolari specifiche e aspecifiche, ansia correlata a lutti o gravi malattie, vissuti di rifiuto/esclusione nelle classi con allievi con certificazione o in corso di diagnosi, disturbi alimentari, depressione…
[2] La grande affluenza agli sportelli d’ascolto conferma la capacità dei ragazzi e delle ragazze di ‘utilizzare’ il professionista per affrontare il proprio disagio.