Scuola e comunità locale

Stefanel

di Raimondo Giunta

Il modello della scuola separata dal mondo, lontana dai turbamenti delle vicende quotidiane, se è esistito, ha compiuto il suo percorso e comunque ad ogni buon conto non avrebbe davanti a sè un grande futuro.

Con la nascita degli stati nazionali la scuola ha preso in carico il compito di legare le nuove generazioni ai valori e agli interessi delle nuove organizzazioni statuali. Da quel momento diventa luogo di riproduzione dei saperi e di formazione dei comportamenti ritenuti necessari per l’accesso ai ruoli di comando della società e per il mantenimento della sua coesione.

Pur separata ha coltivato un disegno egemonico sulla società; ha ritenuto di doversi considerare il suo “dovere essere”, di rappresentare il paradigma, l’esempio dei principi e dei valori che andavano ovunque praticati.

La scuola dell’educazione nazionale nasce nel seno della cultura illuministica e ne conserva ereditariamente i tratti, gli impulsi, le tensioni e le procedure.  E’ una scuola che non conosce i propri limiti e che crede di essere e rappresentare la “cultura”, di avere l’esclusiva della vera e unica educazione; di essere nella nazione la sola dispensatrice del sapere critico, razionale, dei valori estetici e spirituali.

La scuola del nostro passato è stata il luogo del testo scritto, dei linguaggi formali, dell’astrazione concettuale: strumenti indispensabili di riduzione, unificazione e mediazione dei saperi alti. Operazioni possibili proprio per la sua separatezza. E’ stata una scuola elitaria nella cultura dei suoi curricoli, selettiva nella sua organizzazione, discriminatoria nella sua composizione sociale.
Questa scuola ha dato ai saperi una propria forma, l’ha dato anche alle procedure di trasmissione, al rapporto conoscitivo con la realtà e al dialogo formativo. Se questa non era la” cultura”, è però stata la sua cultura, dalla quale le riesce difficile distaccarsi.

La scuola dell’educazione nazionale è stata necessariamente una scuola uniforme, accentrata, diretta dall’alto.
E’ stata gestita con ordini di servizio e direttive indiscutibili, come si credeva che dovesse essere l’enciclopedia dei saperi che doveva trasmettere; è stata una scuola che ha funzionato finché è stata piccola la platea dei suoi studenti, limitato l’accesso ad ogni grado di istruzione.  Ha funzionato finché è stata semplice la composizione sociale della nazione e finché governabili sono stati i processi di cambiamento tecnico e lo sviluppo delle conoscenze.

Negli ultimi decenni il contesto di riferimento della scuola è profondamente mutato, è diventato quasi irriconoscibile rispetto al passato. Si potrebbe dire con grande approssimazione che fino a ieri la scuola è stata la scuola degli stati e delle economie nazionali, la scuola del primo secolo di industrializzazione, ma che oggi si trova fuori posto nei tempi dell’universalizzazione delle economie e dei mercati, del deperimento degli stati nazionali e della costituzione di comunità statuali multietniche e multiculturali.
Pare a molti evidente che il sistema scolastico necessariamente debba scommettersi e sfidarsi in un nuovo cammino; dalla sicurezza delle precedenti stagioni deve avviarsi alla ricerca di una nuova identità.
La scuola deve vivere con consapevolezza il suo paradosso che è quello di innovare, ma anche di conservare; di confrontarsi con i cambiamenti, ma di non illudersi di poterli afferrare e assimilare nella loro interezza; di porsi ancora come momento possibile di unificazione nazionale, ma di dare spazio alla diversità,  di aprirsi alla pluralità delle culture locali; di trasmettere un patrimonio,  ma anche di innovarlo. La condizione di separatezza, che l’ha distinta, si deve sciogliere in un rapporto di reciproco dialogo e di scambio con la società. Tra scuola e società c’è qualche necessaria barriera, ma non la cortina di ferro.

L’autonomia della scuola è sembrata lo strumento adatto per far compiere alla scuola questo nuovo percorso. La scuola non più luogo di esecuzione, ma di ricerca e di elaborazione curriculare; di creatività didattica; luogo in cui trovano spazio la libertà professionale e la responsabilità del personale della scuola.  L’apertura al territorio che era stata nel passato una vaga opzione culturale è diventata oggi un compito specifico da assolvere. Il territorio non è più un ambito di conquista e di colonizzazione; il depositario di conoscenze, di valori e di simboli di una cultura ritenuta minore e pertanto da censurare e da rimuovere, ma un partner educativo.
Con l’autonomia la scuola, pur rimanendo dentro l’apparato delle istituzioni statali, incomincia a qualificarsi come ente di servizio territoriale, la cui funzione si esprime nella formulazione di proposte formative che devono tener conto del contesto locale e interpretarne la storia.

La scuola da luogo di conformità diventa luogo di confronto culturale e valoriale. La scuola si arricchisce perché si possono recuperare gli elementi di contiguità e di continuità col mondo circostante e perché in questo modo in ogni situazione si può riannodare il filo della comunicazione con le generazioni che ci hanno preceduto; la scuola può diventare luogo della ricostruzione della memoria e delle tradizioni locali.
L’accortezza e la sapienza delle scuole devono fare in modo che l’apertura al territorio non comporti l’irruzione acritica del folklore e dell’aneddotica municipale nel curriculum, perché il compito è quello di dare spazio ai saperi “altri” rispetto a quelli ufficiali, ma nella forma seria del sapere critico e storico e di comprendere che tra territorialità, spazio nazionale e relazioni internazionali si giuoca la partita della buona educazione delle nuove generazioni.