La questione del “docente esperto”, aperta dai provvedimenti appena disposti, ha comprensibilmente suscitato una serie di reazioni, a partire da quelle degli organismi di rappresentanza sindacale. Il tema è delicato e tocca, per così dire, “nervi scoperti” e annose diatribe.
Forse vale la pena rispondere alla frettolosa (e a mio parere abborracciata) soluzione governativa con una più ponderata riconsiderazione dei temi sottesi alla problematica. Solo così, a mio avviso , possiamo sottrarci al clima da derby che sembra profilarsi, e che non aiuta a fare qualche serio passo in avanti.
Il dispositivo di legge ha, mi pare, il limite di fondo nella stessa cornice di emergenza da cui è scaturito. Ne è nata una configurazione parziale, in cui si parla di “docente esperto” come mero prodotto di un non meglio precisato percorso di “formazione” spalmato in un lungo arco di tempo, senza un esplicito riferimento alle dimensioni professionali della docenza in quanto tale. Questa scotomizzazione di partenza ha reso a mio parere arbitraria e in-fondata l’intera operazione.
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Per cominciare, riporterei la questione nell’alveo nell’interezza che le appartiene. Parliamo allora di “articolazione delle funzioni” all’interno della professionalità docente, che è composita in sé stessa, multidimensionale. Se questa caratteristica strutturale diventa via di accesso ad una forma di gerarchizzazione (sancita infine dal trattamento economico fortemente differenziato e dalla platea dei “pochi” cui esso è programmaticamente destinato) si determina una torsione concettuale (e giuridica) dello stesso profilo.
Si sta immaginando una “comunità di pratiche” ispirata alla specializzazione dei “ruoli”, che diventano “figure” e non “funzioni” dello stesso profilo? Se questo è il modello di funzionamento, penso sia opportuno mostrarne le incongruenze, gli effetti negativi proprio sulla qualità dei processi di insegnamento-apprendimento che si dice di voler meglio assicurare.
Per esempio: la competenza progettuale non può essere delegata a un “esperto”, in quanto è parte integrante della prestazione didattica, che, se avulsa da essa, sarebbe attività meramente esecutiva. Così anche una didattica che, in quanto progettualità, ignori le implicazioni gestionali e organizzative è privata del suo corollario che è il criterio di fattibilità, rischiando di restare (come non di rado succede) una nobile ma inerte dichiarazione di intenti.
Diverso è il ragionamento se si considera la necessaria funzione di coordinamento, che un sistema complesso qual è l’istituzione scolastica richiede. Le “funzioni strumentali” (eredi delle “funzioni obiettivo”) sono un esempio largamente sperimentato di questo modello di funzionamento. Si tratta di istituti ancorati alla pianificazione educativo-didattica, dunque coerenti con le scelte collegiali e non correlati (come sembra adombrare la norma in questione) ad un “cursus honorum” de-contestualizzato, perseguito individualisticamente.
Partiamo da qui: da un ripensamento e, se necessario, da una rinnovata declinazione delle dimensioni che articolano la professionalità docente; tenendo ferma l’istanza di “tenerle insieme” nello stesso profilo, in concreto nella stessa persona, in netta controtendenza rispetto a ogni forma di “divisione del lavoro” che richiama concezioni tayloristiche decisamente superate.
Ragioniamo, infine, sulle funzioni di coordinamento, sostenendo la capacità delle istituzioni scolastiche, nell’esercizio responsabile della collegialità e nella cooperazione di tutte le componenti, di individuare i nodi della rete progettuale/organizzativa che connotano il sistema-scuola, affinché siano presidiati. Non vedrei male in questo caso un avvicendamento, regolato da criteri espliciti e trasparenti definiti dall’istituzione autonoma, nell’assumere tali funzioni di coordinamento: questo non per omaggio ad un principio astratto di democraticismo, ma perché ritengo che ogni docente dovrebbe farne concreta esperienza (diventarne “esperto”…) per maturare quella visione complessiva del sistema che è troppo spesso carente e delegata a pochi.