E io ti boccio
Se c’è qualcosa di anacronistico e di incongruente con l’individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento sono le bocciature.
Aveva tentato nel 2007 il governo Prodi, ministro dell’istruzione Fioroni, di abolirle, almeno nel biennio delle superiori, con un notevole risparmio per le casse dello Stato, ma l’idea incontrò l’opposizione dei sindacati che in quel provvedimento di riforma vedevano una minacciosa caduta del numero delle classi e di conseguenza di cattedre e posti di lavoro.
Poi viene da chiedersi tutti quei miliardi del PNRR per edifici scolastici e edificatori di sapere (quest’ultimi sarebbero i docenti) per fare quale scuola?
Un’altra come questa che boccia in seconda elementare, come riportato in questi giorni dalle cronache di Bari?
Sappiamo che l’esito delle bocciature esplicite o implicite che siano è la dispersione scolastica, da noi oltre la soglia del 13%, una dispersione scolastica che ci costa circa 70 miliardi all’anno, pari al 4% del PIL, una dispersione segnata dai primi fallimenti già accumulati alla primaria, micidiali, poiché funzionano come profezie che poi si avverano.
È che la cultura della formazione vista dalla parte di chi deve essere formato è quella che manca a chi si dovrebbe occupare delle policy scolastiche.
Era già l’errore di fondo contenuto nella Buona scuola del governo Renzi, con l’incongruenza di pretendere di chiamare “buona” una scuola lasciata inalterata nella sua struttura di sempre, per di più perdendo di vista proprio gli studenti punto di partenza e di arrivo di ogni processo formativo.
Ora poi assistiamo alle self-candidacy a fare il ministro dell’istruzione come quella ufficializzata su Il Foglio, dal professore Marco Lodoli che se ne va in pensione e intende mettere a disposizione del paese la sua esperienza di uomo di scuola.
Il suo programma in dieci punti esordisce con l’affermazione: “La scuola ha bisogno di ritrovare a pieno la sua missione che è educare, preparare, formare…”
Come non essere d’accordo! Salvo che sarebbe il caso di dire come. Non è dato di saperlo, a meno che non ci sia qualcuno, sebbene uomo di scuola e intellettuale, così sprovveduto da ritenere che l’impegnativa affermazione d’esordio si realizzi attraverso l’elenco delle cose da fare che il professor Lodoli propone, dall’aumento delle ore di educazione fisica, a quelle di musica, alle lezioni di cinquanta minuti fino, ovviamente, all’aumento dello stipendio degli insegnanti. Il tutto mantenendo la scatola e i suoi contenuti così come sono ora.
Insomma come questa scuola andava bene ieri andrà bene anche domani, tanto il futuro dei giovani non lo possiamo conoscere, e una generazione vale l’altra, ragazze e ragazzi poi sono tutti uguali, che siano del secolo scorso e dei decenni a venire cosa cambia.
È questa ignoranza che pesa come una cappa sul paese, professori, intellettuali, politici, non ci si salva.
La scuola è nata così con Casati e Gentile e così deve continuare a vivere.
Siamo sempre lì, alla Mastrocola e coniuge. Per cui anziché essere considerata una madornalità da licenziamento in tronco di chi ha deliberato la bocciatura di una bimbetta di sette anni in seconda elementare, in questo paese si dibatte circa il de jure della sentenza con la quale il Tar della Puglia invita il collegio dei docenti della scuola a ritornare sui suoi passi.
Non è che uno debba essere costretto a sorbirsi la legislazione scolastica che oltretutto è di una qualità letteraria pessima, ma lo scollamento tra immaginario scolastico collettivo, pratica scolastica e normative scolastiche in questo paese è enorme. Sono come tre strade parallele ognuna delle quali procede verso la propria meta senza alcuna possibilità di comunicare tra loro. Questa assenza di comunicazione fa sì che l’opinione pubblica non si modifichi mai, gli insegnanti continuino a lavorare come hanno sempre fatto incuranti di ogni innovazione e che leggi, norme e circolari restino lettera morta.
Agisce una sorta di refrattarietà ai cambiamenti per cui l’opinione pubblica non si sposta dai luoghi comuni e la scuola dal suo modus operandi, così che il gattopardesco tutto cambi perché tutto rimanga com’è può giungere comodamente alla sua apoteosi.
Dalle Indicazioni nazionali alle Linee guida ministeriali si sono spesi fiumi di parole sul senso della valutazione in particolare nella scuola primaria, ma rimane una ambiguità irrisolta quella della eccezionalità, dei casi eccezionali.
Noi siamo il paese del tutto è normale salvo eccezioni, guarda caso, abbiamo pure la faccia tosta di affermare che le eccezioni confermano la norma essendo noi tutti discepoli dell’avvocato manzoniano.
Per cui nonostante ci si sia sforzati di spostare la valutazione sui processi si torna sempre, con una sorta di riflesso condizionato ai giudizi, ai giudizi sulla persona, anche se questa ha solo sette anni non può sottrarsi ad una simile mannaia e la mannaia si cela in quel “salvo eccezioni”.
In realtà c’è molto di più e il molto di più sta nel continuare a perpetuare un sistema scolastico fondato sulle classi di età, sulla massificazione delle differenze.
Non si può da un lato licenziare normative che richiedono di adattare l’insegnamento “ai bisogni educativi concreti degli alunni, ai loro processi cognitivi, meta-cognitivi, emotivi e sociali” per poi mortificare tutto nell’uniformità della classe, dove di regola tutti devono giungere allo stesso modo alla classe successiva, salvo ritornare al punto di partenza per ripetere di nuovo l’intero percorso.
Dovrebbe essere ormai evidente che la struttura “casati-gentiliana” del nostro sistema scolastico fondata sulle classi di età costituisce un grave ostacolo ad ogni forma di flessibilità e di individualizzazione dei percorsi di apprendimento. Che se non si aggredisce il nodo strutturale la dispersione scolastica sarà sempre alta e la tentazione delle bocciature sempre latente.
Si tratta di capovolgere la logica e passare da una scuola pensata come progressione verticale, dal basso verso l’alto secondo l’età anagrafica, a una progressione orizzontale lungo un curricolo percorso da ciascuno secondo i propri tempi e i propri bisogni formativi che nessuna classe e bocciatura possono imbrigliare.
Il rischio è che le risorse del PNRR spese per la scuola e per la formazione degli insegnanti siano ancora una volta investite per la scuola di ieri o di oggi, ma non certo per quella di domani.