Standogli accanto (a proposito di dispersione scolastica)

di Raffaele Iosa

Nel sito www.proteofaresapere.it Dario Missaglia ha pubblicato un coraggioso articolo sulla cosiddetta “dispersione scolastica” e il PNRR dal titolo “La variante semantica”.
Una critica dura e convincente sulle diffuse contraddizioni circa l’interpretazione, le ragioni e i possibili interventi per ridurre in Italia le bocciature e gli abbandoni scolastici fino ai NEET, e sui rischi di un welfare compassionevole che sta invadendo l’educativo con varie forme di “assistenzialismo riparativo” di incerta e quanto meno dubbia efficacia.

È lapidaria, al proposito, una citazione che Dario riprende da un recente saggio di Alberto Alberti (nostro comune amato maestro) che demolisce la bizzarra variazione che hanno oggi le parole utilizzate per spiegare il fenomeno con l’ormai invasivo termine “dispersione”. Parola da fumo atmosferico, in cui si descrive il “disperso” come una malattia individuale.

Malato è (sempre) il disperso, non la scuola che lo boccia. Scrive Alberto Alberti:
Gli interventi comunitari garantiscono aiuto alle scuole ma in maniera esclusivamente aggiuntiva … Il problema da interno si sposta all’esterno. Non si mette in causa la scuola che boccia e allontana. Si mette sotto accusa il territorio sbagliato … la scuola è quella e rimane tale, non può adeguarsi alle esigenze degli allievi. Sono sbagliati gli allievi.

Per questi ragazzi sbagliati servirebbero cure che solo alcuni professionisti dell’abbandono possono garantire. Che siano del Terzo settore, e che la scuola sia obbligata a fare con loro i cd. patti di comunità è solo la parte venale della questione (i soldi…), quella più grave è la questione ideologica di questo obbligo, cui le neo-parole sui “bisogni” che diventano “problemi”  che si fanno “deficit” intende dare un vestito persino scientifico.  Parole che favoriscono la delega della scuola all’esperto, che se è perfino (a modo suo) un volontario assume un carisma missionaristico.

A questa “malattia” il PNRR proporrebbe alcuni interventi di “recupero riparativo” in cui un soggetto professionale “esterno” pare indispensabile in quanto (solo lui)  esperto. Certo, con la scuola, ma un soggetto asimmetrico soi disant competente. Il rischio che il tutto diventi una delega in bianco ai sacerdoti del welfare compassionevole è alto.  Il rischio che la scuola non cambi nel profondo stili di insegnamento e abitudini educative (cioè quelle che bocciano) è perfino maggiore: tanto ci sono loro a pensare agli sfigati e ai poveracci. Un po’ come con i nostri studenti con disabilità l’esaltazione del docente di sostegno come unica opzione inclusiva.


Questo mio commento vuole solo aggiungere poche cose ai ragionamenti di Dario, su alcuni aspetti che mi stanno a cuore, tra cui la deriva iatrogena che questa neoideologia dei dispersi produce assieme a molte altre dominanti oggi nelle nostre scuole. E cioè neo-parole e interpretazioni che imputano all’altro la sconfitta per una sua propria inadeguatezza (sociale, biologica, genetica, ecc..), cui il sacerdote del dolore offrirà lenimento, liberando la scuola dal dovere onestamente autocritico di interrogar-si sul proprio agire educativo, disciplinare e sociale,  per garantire a tutti lo sviluppo di tutti i possibili potenziali esistenziali e cognitivi.

Nel fantasioso mondo dei bes

Ho tra le mani un vecchio libretto di Ivan Illich (1977) dal titolo radicale  Disabling professions(1),  profetico sul nascere di vaste aree di neo-professionisti del dolore che partendo da alcuni “bisogni” riconvertiti in “problemi” costruiscono diagnostiche, terapie, seduzioni compassionevoli e assistenziali di dubbia efficacia, se non la dipendenza del “bisognoso” cui non si offre autonomia ma un banale adattamento delle attese (la cura “recuperante”), con un proprio status per non essere estraneo al mondo ma mai cittadino del tutto libero del proprio sé.

La profezia si è avverata: in Italia gli studenti con disabilità sono raddoppiati in soli 20 anni, i cd. DSA ormai, a 12 anni da una legge iatrogena, li hanno sorpassati. Ma c’è di più: forse non è un caso che proprio lo stesso Marco Rossi Doria della “questione delle questioni” sul PNRR sia l’autore di una direttiva del 2012 che ha introdotto nella scuola una neo-lingua diagnostica che definisce i bambini e ragazzi che abbiano un qualche “bisogno” come bes, cioè educativi speciali. Gli effetti sono stati quanto meno discutibili, e producono un effetto stigma (anche se in buona fede) che può produrre più effetti indesiderati di quanto si pensi. Il principio pratico del bes è la logica della dispensa e della compensa, cioè di una pratica isolante dove si può dare al nostro bes meno cose da fare o cose adattate per varie vie.  Ma è una dispensa e una compensa dal mainstream classico di molti insegnamenti, mai messi però in discussione come la fonte invece dei malanni educativi.

Trovo sconcertante che per i ragazzini ucraini a fronte dell’imbarazzo di molti buro-pedagoghi delle scuole sul che fare (le prove invalsi si o no? Se fanno la loro Dad di mattina devo considerarli assenti o presenti?) il Ministero abbia suggerito alle scuole di considerarli bes, di farci sopra un PDP, così le carte sono a posto. E le persone?
Questa esplosione neo-epidemica l’ho chiamata criticamente in diversi saggi “La Grande Malattia”, non un fenomeno solo italiano, e rappresenta una riconversione del welfare  da strumento di sviluppo olistico e autonomo a trattamento isolante dei  sintomi, visti appunto come disturbi.
È noto come questa esplosione di nuove sindromi non abbia affatto migliorato la qualità degli interventi educativi né ridotto la vasta conflittualità tra gli insegnanti e i genitori.
È in questo humus ideologico che rischia di collocarsi anche la politica del PNRR nei confronti della dispersione scolastica, con cure adattative delle singole persone partendo non dai loro potenziali e talenti, ma dai loro sintomi problematici cui offrire la nostra benevola terapia.

Su questo la questione che a me come educatore turba di più  è l’effetto-paradosso che questa filosofia delle cure speciali sembra produrre. È argomento di numerosi studi(2) critici che però in Italia non hanno particolari effetti di ripensamento. Questi studi rilevano come la definizione dell’altro come “problema-deficit” cui offrire una “cura speciale” produce spesso nell’operatore (educatore, assistente sociale, insegnante, psicologo, ecc..) un ridimensionamento della possibile “zona prossimale di sviluppo” vigotskijana della persona: cioè  (per motivi clinici, di stigma, persino di assistenzialismo benevolo) ci si attende meno da questo altro, anzi si ritiene buona cosa non esagerare stimolando troppo i suoi (magari pochi) potenziali. E così pare di fargli persino un piacere adattativo. Col che passa anche all’altro (e alla sua famiglia) un “abbassamento delle attese dell’io”. Dunque lo sviluppo viene ridimensionato e non realizzato come sarebbe invece possibile. È l’effetto iatrogeno che produce spesso negli interventi sociali ed educativi degli adattamenti al ribasso con conseguente consolidamento della cronicità e quindi di una condizione assistenziale perpetua.

Questo effetto iatrogeno lo si sente anche  nelle discussioni sulle iniziative di contrasto alla dispersione. Cure assistenzialistiche di un difficile “recupero” col rischio di uno sperpero di impegno (prima professionale che economico) senza cambiamenti veri ma solo parziali e incerti adattamenti. E soprattutto il rischio che questo Intervento del PNRR resti come un una tantum, questo sì disperso in una scuola che non cambia profondamente il suo fare quotidiano. Il rischio, insomma,  è che ancora una volta l’assistenzialismo compassionevole venga calato sull’altro dall’alto, abbassandone i potenziali e accentuando il diventare un eterno paziente di qualcuno.

A proposito di povertà educativa

Uno dei segni di rischio iatrogeno che si possono produrre negli interventi ad hoc sulla dispersione è l’abuso che oggi si fa del termine “povertà educativa”, che diventa l’icona entro cui collocare tutti i bocciati e abbandonati con basso reddito. Qui davvero la variante semantica è grave.
Ho già scritto altre volte che per don Milani poveri non erano i suoi ragazzi ma i loro insegnanti di scuola media che li bocciavano senza alcun pentimento.

Comunque perché non diciamo lucidamente che in Italia la dispersione continua ad essere semplicemente la tradizionale e mai superata selezione di classe? Perché così è: l’aumento della povertà economica è un accidente grave del nostro paese,  e non c’è alcun dubbio che un ragazzo povero che magari vive in zone disagiate ha meno opportunità. Ma perché aggiungere al termine povertà quell’altro (molto più delicato e complesso) di educativo? Come se i figli dei ricchi fossero tutti gentili, cortesi, aperti, ecc. E come sei i poveri fossero tutti maleducati e sporchi.

Non è difficile qui trovare un pregiudizio illuministico del rapporto tra ricchezza e felicità. E un pregiudizio che contiene una sorta di metafora rieducativa per la quale i sacerdoti del dolore dovrebbero ri-educare al bene e al bello il povero maleducato estirpando le brutte abitudini culturali date dalla povertà. Qui le parole pesano come pietre e ottengono effetti perversi.
I ragazzi poveri hanno meno opportunità, ma un’educazione ce l’hanno, potrebbe essere a volte più profonda e creativa dei signorini  di città. Basta star loro accanto e scoprire i loro talenti.
Forse avere anche una politica di contrasto alla povertà economica più coraggiosa, per esempio con un aumento dei redditi da lavoro. Circa il rapporto tra ricchezza e felicità, forse merita ricordare sempre, a proposito delle famiglie, l’incipit di Anna Karenina di Tolstoj  “Tutte le famiglie felici si assomigliano, quelle infelici invece lo sono ognuna modo suo”.

Infine,  la categorizzazione del rapporto tra povertà e educazione in una neo-lingua unitaria rischia di produrre un mucchio opaco di stigmi compassionevoli dove si mettono dentro tutti i ragazzi poveri come fossero tutti uguali, a scimmiottare con tutor, mentor, e altri anglicismi che ripetono a tutti la stessa bonaria paternale.
Naturalmente, non si tratta solo di neo-parole controverse, ma di una visione del mondo, della società e del ruolo dell’educazione che ha oggi un contrasto vivo tra diversi punti di vista.

La nostra differenza dai sacerdoti della povertà educativa è chiara. Per questo dobbiamo però avere il coraggio di ragionare con maggior forza sui cambiamenti radicali necessari nel sistema educativo, nel fare scuola quotidiano. È li che nasce la malattia, assieme al bisogno di una comunità sociale quasi scomparsa (e da far rinascere) attorno alla scuola che sia dialogante, coinvolta, attiva, per una sussidiarietà orizzontale che non sia la delega a qualcun altro, ma l’impegno duro e difficile a migliorare insieme (scuola, comune, società civile, famiglia) la qualità della vita con una comunità di reciprocità, con l’umiltà di sapere che la vita è difficile, ma che ci resta solo una via: un’umanità che pensi al futuro dei nostri figli e nipoti con partecipazione attiva.

Standogli accanto

Un noto passaggio della Lettera a una professoressa ci può dare un primo piccolo ma essenziale paradigma trasformativo di cosa potrebbe voler dire davvero contrastare la dispersione. L’ho letto la prima volta alle magistrali, scuola che ho fatto perché figlio di poveri (durava quattro anni), e questo brano ha segnato la mia vita e i miei sogni professionali di maestro e privati.

Solo i figlioli degli altri qualche volta paiono cretini. I nostri no. Standogli accanto ci si accorge che non lo sono. E neppure svogliati. O per lo meno sentiamo che sarà un momento, che gli passerà, che ci deve essere un rimedio.
Allora è più onesto dire che tutti i ragazzi nascono eguali e in seguito non lo sono più, è colpa nostra e tocca a noi rimediare.

È questo standogli accanto la chiave trasformativa di una buona educazione. Genitori o insegnanti o operatori sociali o volontari che siano. E la scuola la chiave per innalzare le attese e le passioni nella vita di ogni bambino e ragazzo. Standogli accanto, non sopra, non dietro. Non guidarlo con le nostre cure, ma aver cura del nostro ascolto e dei nostri miti e ragionevoli stimoli a lui.

Questo per i bocciati di ieri da aiutare e per quelli a rischio bocciatura di oggi. Con l’umana umiltà che fa l’onore del nostro mestiere quando sentiamo viva la responsabilità adulta di un’educazione buona per tutti, qualsiasi sia la loro condizione.

¹Ivan Illich et al., Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti, Trento, Erickson
²Allen Frances, Primo, non curare chi è normale, Torino, Bollati Boringhieri
Frank Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Milano, Feltrinelli

 

 

INTORNO ALLA VARIANTE SEMANTICA. QUALCHE RIFLESSIONE.
– di Eliana Romano, presidente Proteo Fare Sapere Sicilia.
7 luglio 2022

Quel che scrive il nostro presidente, Dario Missaglia, come sempre ravviva il lume del mio intelletto; costringe a porsi domande, ad interrogarsi, con la sua stessa modestia intellettuale e la medesima fermezza. Domande sui tanti problemi della scuola italiana e sulla piega con cui li si affronta.
È una piega sempre gualcita che nasconde, da qualche parte, la volontà di affrontare ritardi, disagi, distonie sempre superficialmente, a vantaggio magari di qualcuno che solo ogni tanto è la scuola reale.

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