La rivoluzione pedagogica di Andrea Canevaro
La passione per gli alberi genealogici è sempre stata di casa nel Movimento di Cooperazione educativa: Mai abbandonare le radici, rafforzare il tronco, lasciare che i rami si espandano. A volte usavamo anche l’immagine rovesciata per rappresentare l’albero a testa in giù come lo aveva ipotizzato Platone o come lo si era pensato nel Medio Evo, le radici che tendono al cielo.
Gli anni ’50, per la scuola, per il pensiero pedagogico, per la crescita socio-economica hanno rappresentato il lento ma tenace lavoro delle radici.
L’energia e gli umori nutritizi venivano anzitutto dalla volontà di voltar pagina. La guerra agita fatta di morti confuse seminate da nemici ed alleati, di distruzioni, era comunque finita.
Giovanna Legatti, Giuseppe Tamagnini, Mario Lodi e quel pugno di maestri e maestre innovatori ed innnovatrici, per nulla al mondo avrebbero rinunciato alla domanda su come si poteva cambiare la scuola.
La strada delle tecniche divenne la via che più tardi la Pedagogia Istituzionale avrebbe chiamato “dei materiali mediatori” e della mediazione pedagogica; proprio Andrea Canevaro, saprà come reimpostare paradigmi, concezioni ed assetti del corpo compatto della scuola introducendo i principi lella Pedagogia istituzionale (Vasquesz e Oury).
Gli anni ’60 tolsero il velo al pionierismo, allargarono le sperimentazioni e lo svecchiamento, contribuirono a portare aria fresca dentro alle aule assieme a terrari, erbari, a volte animali ed arnesi disparati.
La tipografia fu davvero come la scoperta della stampa cinquecentesca. Sancì la libertà e la circolazione del pensiero, l’apertura ad altre classi. L’esclusione dei ceti più deprivati che portava il segno della negazione di tutto quanto riguardasse la materialità della vita quotidiana, assumeva, risignificandosi, la connotazione di sapere e trovava spazio dentro alla sacralità dell’aula .
Il sapere delle stagioni, dei bachi e della loro metamorfosi, della statistica dei giorni piovosi o sereni era finalmente compreso e fatto convivere con il sapere dei libri . Tutto questo è descritto con dovizia di particolari da Mario Lodi in “C’è speranza se questo accade al Vho”. Dice bene Mario; è apparsa una fetta di luce che filtra proiettandosi sul pavimento, quando si socchiude la porta. Rodari osserva le luci e le ombre delle nuove pratiche, ne riconosce l’enorme spinta simbolica, la possibilità che, passando per un tocco di surrealismo, si potesse leggere il reale scherzandoci su, ironizzando, rovesciando sensi e giocando con le parole, spingendo l’azzardo fino ad una nuova concezione etica del vivere e dell’organizzazione sociale. Facendo quello che Calvino fece, in modo più amaro e disincantato, con i racconti sui Marcovaldi che si perdevano nella finzione dell’abbondanza a portata di mano.
La scuola si sprovincializza, ci sono fermenti che la scuotono, che la attraversano, che la rinnovano, che mettono ferocemente in discussione il suo carattere selettivo ed autoreferenziale. Il testo collettivo delle nuove metodologie Freinet serve a don Milani che aveva accettato la lezione ed era entrato in questo corto circuito, per mettere a punto “Lettera ad una professoressa”, una invettiva senza peli sulle responsabilità di un’Istituzione che perde molti, troppi/e, per strada.
Un “j’accuse” politico perfettamente intonato ai tempi e ad una coscienza nuova dei diritti fondamentali. La pedagogia traballò come disciplina, l’Istituzione scuola fece argine e contenne il fiume in piena.
Nacque la scuola media unica. Ma ragazzi e ragazze continuarono e continuano a perdersi nel bosco.
Lo ha capito bene Andrea Canevaro. Lo hanno capito molti insegnanti animati dal migliore degli spiriti innovatori ma avversati dalla sindrome del Don Chisciotte.
Lo hanno vissuto molte famiglie che avevano gioito per lo statuto dei lavoratori (1970) ma dovevano lasciare i loro figli in scuole speciali o ancora nascosti in casa perché la scuola non ha potuto accoglierli, in quanto diversi, fino al 1975, anno del primo esito/pubblicazione del documento Falcucci e poi il 1977 con la 517 che sancì la possibilità di frequenza scolastica a tutti gli alunni con disabilità.
Una conquista normativa enorme ma costellata di innumerevoli difficoltà. Fu una seconda rivoluzione copernicana ed Andrea Canevaro divenne per il mondo della scuola e per il Movimento di Cooperazione educativa uno dei punti di riferimento imprescindibili assieme alla sua facoltà, ai suoi collaboratori, al Ceis di Rimini, al lavoro di ricerca sull’autismo e sulle infinite gamme di problemi che assommiamo dentro la parola “diversità” o handicap. Con l’ingresso degli alunni ed alunne con (dis) abilità, non era la normalità che imprimeva i ritmi alla diversità ma era la diversità che chiedeva che cambiasse la collaborazione tra alunni ed alunne, il modo di fare i gruppi di lavoro, di disporre i banchi, di sistemare l’ aula, di distribuire i tempi. Fu necessario che gli strumenti venissero ridiscussi, moltiplicati, riadattati. Forse, in nome della prima rivoluzione delle tecniche, questa rivoluzione, controversa, è passata più in sordina, accompagnata da un dibattito spesso leguleio sul ruolo dell’insegante di sostegno.
L’Istituzione ha continuato ad essere una casamatta, un baluardo che per riprodursi ha dovuto in parte conservare le sue regole totalizzanti e rigide e con queste le stanze a sé per momenti di eccessivi e spesso prolungati esilii di alunni ed alunne in difficoltà e/o socialmente svantaggiati.
Del resto ancor oggi la ricreazione suona alla stessa ora nelle 19 regioni italiane e la scansione oraria segna il ritmo del tempo a dispetto di tutti gli orologi solari che alunni ed alunne hanno studiato e progettato e a dispetto della naturalità dei ritmi biologici.
Alla cosichiamata “resilienza”, termine a me molto inviso, la scuola ha sempre risposto con una parte di limite roccioso di irriformabilità.
Questo limite, questa muraglia è stata spesso oggetto di analisi e di studio tra noi ed Andrea tanto da spingere Andrea a riflessioni estreme sugli universi concentrazionari per capire come la memoria offesa dei campi di concentramento possa essa stessa divenire forza di resistenza, di re-esistenza.
Andrea ha offerto al Movimento un aiuto costante.
Nel 1992, ero in Segreteria nazionale ed avevo l’esonero da scuola. A dicembre avremmo celebrato il convegno nazionale di Siena che avrebbe dovuto segnare una svolta ed un rilancio del Movimento: “Dalla pedagogia popolare nasce un progetto educativo per una società interculturale e multietnica”.
Non saprei ricontare le ore che spendemmo per fabbricare questo titolo. So che erano arrivati anche se non in forma massiccia, i primi alunni stranieri e ci stavamo preparando ad una crescita del fenomeno migratorio e ci eravamo seriamente posti il problema di come conciliare il concetto di “popolare” con altre culture. L’allora segretario Natale Scolaro (morto molto giovane), tuonava che ci saremmo giocati, in quel convegno tutto il nostro lustro pedagogico.
A me venne affidata la relazione di apertura ma anche una parte del coordinamento dei relatori, cosa da far tremare le vene ed i polsi. Poi mi disse che l’intero impianto andava mostrato ad Andrea che era nel Comitato scientifico assieme a Fiorenzo Alfieri, Paola Falteri ed altri.
Ottenemmo il patrocinio del Presidente del Senato, allora Spadolini. Mi pare fosse settembre del ’92, Andrea ci dette un appuntamento a Bologna. Ero molto ansiosa, come andare ad un esame. Cercai di tranquillizzarmi pensando che avrei lasciato parlare Natale. In realtà Andrea ci venne incontro con un sorriso così conciliante che mi sparirono tutte le paure, andammo a prendere qualcosa ad un bar e lì discutemmo un’oretta,
Andrea ci rassicurò molto e si sarebbe incaricato, se non ricordo male, di fare alcune telefonate. Fu un incontro come pochi, anche gli ostacoli più rilevanti sembrarono rimpicciolirsi. Nei mesi successivi misi insieme, limandolo mille volte lo scritto e battendolo in un mac 128k poco più grande del formato cartolina. Andai da Luisa Tosi, una capostipite della scuola trevigiana, con mac a seguito e le chiesi se potesse andar bene quanto scritto, mi rispose laconica , come era Luisa: “Dignitoso”. Perché, non crediate, ma anche dentro il MCE gli esami non finivano mai !
Fu così che affrontai Siena con lo spirito aleggiante dei due angeli custodi (Andrea e Luisa) anche se nulla mi impedì dopo la relazione di sciogliermi in bagno in un buon pianto liberatorio. La figura di Andrea era stata tuttavia, una sorta di talismano a cui ricorrevo quando la difficoltà mi pareva insormontabile, perché il carattere di Andrea era così, e per prima cosa ti chiedeva come stavi non dimenticando nulla dei racconti passati e di chi eri.
Il pacioso parlare di Andrea non ci può far ingannare sulla seconda rivoluzione dell’innovazione pedagogica, quella che parte dalla diversità.
Se Tamagnini, Legatti, Nora Giacobini, Lodi, Rodari, Tonucci e molti altri, sono stati gli esploratori della prima ora , non possiamo disgiungere il secondo passo di cui Andrea Canevaro è stato artefice seminando in Italia e nel mondo principi e riflessioni psicopedagogiche che hanno consentito di dire: “C’è speranza se questo è successo in Italia nella scuola, nelle cooperative, ad opera di un uomo discreto instancabile e profondamente umano tanto da fare dell’umanità la scienza dell’inclusione ”