Un premio Nobel per insegnanti e studenti ucraini
Giorno 43 di guerra.
Continuo a scrivere sui nostri bambini e ragazzi ucraini profughi nelle nostre scuole. In questi pochi giorni ho raccolto decine di storie, seguito varie accoglienze (belle e brutte), avuto contatti (difficili) con vecchi amici delle terre slave. Ho fatto una decina di webinar a gruppi di scuole.
E sono giunto ad alcune considerazioni che qui ora è per me doveroso raccontare.
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Sono insegnanti da Nobel (della pace)
Sono stato il primo in Italia, a metà marzo, a scrivere di questa strana “Dad di guerra” che avevo scoperto per caso dai primi racconti (ancora incerti su cosa volesse dire) di alcuni nostri insegnanti e presidi.
Oggi sappiamo molto di più: questa Dad non è un fatto casuale ed episodico ma intenzionale. Già in un mio post su fb del 17 marzo, “Pedagogia dell’infosfera”, ne parlavo come uno straordinario evento educativo. Lì avevo segnalato anche il sito del ministero ucraino con un settore intitolato education in wartime, in inglese, finora ancora troppo poco aperto dagli insegnanti italiani.
Ecco in sintesi essenziale di cosa si tratta. Prima che iniziasse la guerra, il ministero istruzione ucraino si era preventivamente preparato, utilizzando l’esperienza di Dad svolta anche da loro ai tempi del COVID.19, e l’ aveva prevista nell’eventualità della “chiusura fisica” delle scuole per guerra. valorizzando le diffuse competenze digitali dei docenti ucraini. Ha poi accompagnato la proposta della Dad nel wartime, affidata alle singole scuole, con una vasta mole di “lezioni asincrone” da scaricare dal loro sito, suddivisi classe per classe dalla 1 alla 12, approfondendo soprattutto quattro discipline: ucraino, matematica, scienze, storia. Dice il sito che è un “primo apporto di strumenti, nell’intenzione di ampliarli”. Poi il 24 febbraio parte la guerra ed esplode un’esperienza pedagogica senza alcun precedente storico.
La Dad “sincrona” funziona più o meno così: sulla base di un “calendario” predisposto dagli insegnanti della scuola che siano ancora viventi e in grado di connettersi, i ragazzini di ogni classe vengono contattati in genere ogni mattina, per circa tre ore al giorno di “lezione”. A volte danno anche “compiti” se possibile farli e hanno anche strumenti di una qualche verifica. Mettiamoci nei loro panni: ad esempio una certa insegnante Svetlana 15 minuti prima manda un sms ai suoi ragazzi, poi si collega. I ragazzi sanno che se suona la sirena (bombe in arrivo) Svetlana spegne, ma restano in attesa se poi riprende.
Lei può essere ancora in Ucraina ma anche profuga in un paese europeo. Come i suoi ragazzi, uno in Italia, due in Polonia, altri in Slovacchia, Germania. Perfino in Spagna. Svetlana si collega…e parte una meraviglia. Ho seguito due “lezioni” in Dad, seduto in un angolo quasi nascosto, e mi sono commosso. Era evidente al mio cuore di vecchio pedagogo che certo contava la lezione, ma centrale era “la relazione” per quelle anime sparse in Europa, fatta di calorosi saluti, sospiri, chiacchiere, fino ai baci lanciati online.
Nel secondo caso non ce l’ho fatta a tacere, e poiché Svetlana parlava un po’ di italiano l’ho salutata con poche parole (troppe fa compassione) dandole un affettuoso ciao e soprattutto un complimento immenso per il suo coraggio, realizzato in uno scantinato semibuio di dove non posso dire e neppure so. Svetlana mi ha detto “spassiba per i nostri bambini”. E ovviamente, dasvidanje, Svetlana. Tra noi non finisce qui.
Per chi non riesce a connettersi e nei casi in cui l’insegnante sia in un luogo senza elettricità, per tutte le situazioni complicate, si scaricano le lezioni asincrone, con un piano ordinato di svolgimento.
Gli insegnanti italiani che ho contattato e le mamme ucraine incontrate mi confermano che tutti (ripeto: tutti) i ragazzi non vedono ora che ci sia il contatto. Mi raccontano che nessun insegnante si è tirato indietro a questo nuovo arduo compito, che anzi offre anche alla sua anima segni di speranza e di vita.
A questo punto un commento serio si impone. Questa guerra sconvolge non solo l’Ucraina, ma di riflesso anche noi, però sono dispiaciuto del fatto che di questa straordinaria esperienza didattica se ne parli troppo poco e che resti in ombra come un fatto minore. Capisco che inorridisce e sconcerta la miriade di ucraini ammazzati nel fango, e preoccupa se questa estate dovremo usare meno il condizionatore. Ma un qualsiasi umano che sappia di bambini non può non riconoscere in questa formicolante azione digitale che corre nella nostra infosfera un “poema pedagogico” inatteso, con una valenza educativa e anche politica che rende onore agli ucraini.
Dalla terra dell’ucraino Makarenko una storia altrettanto grandiosa.
Senza fare troppe esegesi geopolitiche, in questo impegno degli insegnanti trovo la stessa coraggiosa “resistenza civile” con cui il popolo ucraino risponde all’aggressione brutale dell’orso russo. Un’identità nazionale di senso civico, una citoyennitè che pochi europei si sarebbero aspettati prima, l’orgoglio coraggioso di un popolo che non si arrende, disposto a tutto per la sua libertà. E che se è costretto a mandare i figli fuori dal paese per salvarli, intende farlo per poco. Tornare a casa è il loro destino, che tocca a noi italiani rinforzare con un’accoglienza mite, empatica, non invasiva, efficace.
E, dunque, a fronte dei loro piccoli costretti a scappare dalle bombe in Europa per salvarsi, la scuola non chiude “per guerra”, ma anzi mantiene in tutti i modi un saldissimo filo profondamente umano, ricrea (anche se virtuale) la comunità che apprende. Una comunità che così vuole e crede futuro.
Ma ci sono due cose in più, squisitamente educative. In questa relazione virtuale sento, prima di tutto, la magia dell’I CARE donmilaniano, del non perdere nessuno, della “cura” umana ed esistenziale che dobbiamo ai piccoli e giovani, quella “cura dell’anima ferita” che Stefano Versari nella sua nota del 24 marzo scorso propone anche agli insegnanti italiani perché tema non clinico ma pedagogico e didattico.
In secondo luogo, il ricreare comunità attraverso la Cultura è collante indispensabile per il loro futuro. E’ la cultura aperta creativa e critica il destino di un paese civile. Ed è la lingua (come logos, non come ethnos) la koinè che dall’infanzia lega un popolo. Lingua e cultura sono l’antidoto alla barbarie. La cultura per poter pensare e scambiare con gli altri simboli e valori. Ecco perché tenere aperta la scuola è un atto di civiltà.
Naturalmente io sono un nessuno per candidare questi insegnanti al premio Nobel della pace. Ma mi permetto il coraggio sfrontato di proporlo. La vera risposta di pace alla barbarie, agli odi, ai conflitti, alle prepotenze è la scuola e la cultura che da lì si allarga. Lo meritano per il coraggio e la sensibilità che mettono nelle loro lezioni, in contesti martoriati, sotto le bombe, nascosti in cantine, rifugi, scantinati.
E questa scuola virtuale, che funziona nonostante tutto, a me pare uno dei più forti segni di pace per un paese martoriato e per un mondo disorientato da questa epoca di guerra.
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Questi bambini e ragazzi ucraini. Anche per loro il Nobel?
Da numerosi racconti fin qui raccolti, emergono alcune caratteristiche interessanti di questi bambini ucraini arrivati da noi. Prima di tutto: non sono moltissimi. La gran parte di loro si sono fermati in Polonia o non lontano e già questo è un segno del desiderio del ritorno. In più la Polonia, come la Slovacchia hanno una lingua che assomiglia di più all’ucraino che il russo. Non è una sorpresa questa per molti di noi? Non fa pensare a qualcosa che si chiama “storia”? Quanto conosciamo la loro storia?
L’impressione generale è che si tratta di bambini probabilmente provenienti da centri urbani, con famiglie di ceto medio. Una prima valutazione delle loro competenze in genere sorprende i nostri insegnanti: sono molto più avanti in matematica, parlano l’inglese meglio dei nostri, sanno di informatica. Molti di loro a casa facevano un qualche sport. E nelle nostre scuole più accoglienti gli insegnanti e il comune hanno già trovato società sportive che li accoglie. Naturalmente tutti i maschi che giocano a calcio sembrano Sevchenko. Soprattutto per la classe 5 (che per il loro curricolo è come la nostra prima media) mi pare quasi per tutti improponibile metterli in 5.a primaria. Troppo scarto e perdita di tempo. In genere non presentano segni di tristezza o ansia, né sembrano timidi. Pare dunque che in loro la resilienza sia forse più forte di quella delle loro madri accompagnatrici. Ma la tristezza è dietro l’angolo. E nel cellulare, che non serve loro solo per collegarsi alla loro Svetlana, ma anche ascoltare il babbo rimasto laggiù, che chiama quando può.
Se una scuola accogliente è sveglia potrebbe avere da loro molti spunti per mescolare le differenti esperienze educative, mutuando le une con le altre. Per esempio la loro educazione al lavoro…
A questo punto, perché non proporre anche a loro il premio Nobel per la Pace assieme ai loro insegnanti?
L’esperienza di questi pochi ma intensissimi giorni, inoltre mi permette qualche suggerimento
Prima di tutto è indispensabile un colloquio con la madre o l’adulto che li accompagna. Uno per uno. Di reciproca conoscenza e di approfondimento sul “chi” è del ragazzo/a, i suoi talenti, interessi, desideri, paure insicurezze. Ci serve anche per far conoscere meglio la nostra scuola come funziona. Si potrebbe fare bene anche in inglese, forse servono meno mediatori di quanto pensiamo. Questa è anche l’occasione di approfondire quale sia la classe giusta dove inserirli, evitando per loro una regressione. Ma serve anche a dare “idee sociali” da offrire al ragazzo/a e alla sua famiglia sulle attività sportive e sociali presenti nel territorio, e sulle reti amicali. Mandare un ragazzino ucraino in classe al vuoto, senza accoglienza e reciproca informazione sarebbe una vergogna pedagogica.
Ricordo inoltre che le mamme ucraine hanno alcune caratteristiche che merita conoscere.
In Ucraina l’età media delle primipare è 26 anni, a differenza delle nostre che è di 32. In Ucraina i laureati di 30-40 anni sono il 56% della popolazione, a differenza dei nostri che sono solo il 29%. Avremo quindi madri mediamente più giovani delle nostre e più “studiate” delle nostre. Alcune potrebbero essere insegnanti o esperte che potrebbero essere utili a tutta la scuola. Teniamone conto. L’Ucraina ha una scuola seria.
Ho qui davanti a me un SMS appena arrivato su una ragazza ucraina al suo primo giorno: si è trovata molto bene, ha legato in particolare con un compagno macedone perché si capiscono molto tra le loro due lingue e poi….parlano tutti e due inglese. Il ragazzino macedone ha fatto da Virgilio alla nostra ragazzina ucraina che (mi dice il messaggio) “lo ha lodato per la disponibilità e la pazienza”. Il messaggino ci insegna molto sull’individuazione della classe, in cui perfino la nostra plurale presenza di alunni stranieri in classe potrebbe essere una risorsa. Reciproca.
Dulcis in fundo, forse una bella riunione tra tutte le famiglie degli studenti della classe potrebbe creare occasioni d’oro di amicizia, solidarietà, accoglienza. Ricordiamoci: poche feste e salamelecchi all’inizio, non sono in vacanza. La festa la faremo quando torneranno a casa loro, amici per sempre perché non siamo stati invasivi e distratti, ma empatici e giustamente lenti.
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Per una scuola più accogliente un’esperienza che va fuori dei luoghi comuni
Mi sono arrivate numerose richieste di informazione su tante cose, apparentemente minime, ma che attanagliano a volte le nostre scuole spesso rese ansiose dalla panna montata del “regolismo para-carcerario e iper-regolato che attanaglia i comportamenti quotidiani.
Ne segnalo alcuni per evitare di far fatica per nulla e crearsi fantasmi.
Il cellulare, ad esempio. Non è difficile comprendere il valore del cellulare per questi ragazzini. Serve a loro per cose molto utili, quali il traduttore google simultaneo, l’uso per collegarsi in Dad se serve, e soprattutto l’attesa di notizie dal padre in Ucraina. Non dimenticate mai: questo è il loro cruccio principale e quello delle loro madri. Il padre è rimasto per la guerra. Inutile, se siete umani, farvi capire perché hanno questa umanissima ansia. Quindi questa vicenda butta per aria il regolismo a volte isterico di certe scuole sull’uso del cellulare, e potrebbe anche insegnare ai nostri ad avere un uso più saggio del loro cellulare. Potrebbe accadere anche che un ragazzino ucraino diventi amico-amico di un coetaneo italiano, al punto che il secondo si mette a studiare ancora meglio l’inglese. E si parlano, dio se si parlano!
Il ragazzino ucraino chiede all’altro di farsi insieme un selfie nell’aula, loro due abbracciati, che vorrebbe fare “for my father and my teacher”. E se lo fanno sorridenti. “Babbo, maestra, avete visto? Sto qua, ho amici, sto bene. E voi?”. Così scrive il nostro ospite sotto la foto inviata. E il compagno italiano la fa girare nei suoi circuiti orgoglioso, scrivendo sotto “io e il mio nuovo amico Oleg”. Ci potrà mai essere in Italia una stupidissima regola che vieta tutto questo? Provo solo brividi di piacere nel vedere come questa accoglienza può aiutarci a sgretolare tanto conformismo regolativo che soffoca la vita educativi.
L’Invalsi, per esempio. Me lo chiedono in troppi per non essere vero: devono fare i test? E assieme a questo la valutazione, le pagelle, gli esami. Ricordo che nella nota Versari già citata questo periodo è proposto come “tempo lento per l’accoglienza”, centrato sull’empatia, la socialità, il primo italiano basic, e soprattutto come continuare il loro curricolo ucraino appoggiato al nostro. Ho già scritto in altri articoli che si sa che il ministero ucraino e il nostro e stanno concordando tutti gli aspetti (chiamiamoli così) “di forma” che rendono ansiose più scuole di quanto pensavo. Aspettiamo quindi che ci arrivino questi accordi di collaborazione e di organizzazione della loro accoglienza qui da noi. Vedrete che è tutto più semplice.
Fate invece quello che serve davvero a loro, non alla compilazione dei moduli e dei verbali.
La loro Dad, per esempio. Qui mi pare che le scuole inizino a comprendere. La loro Dad in wartime, se è presente, è al centro della nostra azione, è proprio quel “curricolo ucraino” che serve a loro per “non perdere l’anno” non in senso formale ma sostanziale. Quella deve essere quindi la base del nostro lavoro didattico e relazionale. Il nostro lavoro quindi deve saper accompagnare, sviluppare approfondire, arricchire la loro esperienza scolastica, non essere in contrasto! Quindi dobbiamo capir bene come funziona, cosa fanno e poi rabboccare noi. Questa esperienza è del tutto originale nelle forme di accoglienza, prevede il ritorno a casa. Una seria pedagogia del ritorno deve quindi partire da lì. Mi sono perfino giunte richieste se queste ore vanno segnate “in assenza” oppure “in presenza” anche se fatte (come piace a me) a scuola in uno spazio calmo dedicato. Forse ci voleva una guerra (scusate questa frase) per renderci conto di quanto il nostro regolismo formalistico a volte ci rende ridicoli.
C’è intorno a noi il bello, per esempio. Ho frequentato molto per volontariato sociale legato a Chernobyl le terre (diciamo così) post sovietiche. Mi sono fatto molti amici. Non ce n’è uno che parlando dell’Italia magari sa poco della nostra politica (e forse non ci perde molto) ma tutti ti dicono con un sospiro “Ah, Firenze! Ah, gli Uffizi! Ah Venezia! Ah Roma e la romanità! Ah, Capri!”. L’Italia è per antonomasia la terra del bello. E dunque, non potrebbe essere l’occasione per portarli nel bello di tante nostre città e paesi? E godere con loro il contatto con la bellezza? Platone ci diceva che il bello è buono. Questa volta forse ha ragione: a questi ragazzini incontrare il bello può far bene. E con loro anche a noi e ai nostri italici, dopo due anni senza gite.
A proposito, due pettegolezzi. Mi ha telefonato l’ufficio didattico della Galleria degli Uffizi per avere suggerimenti su come organizzare visite guidate per gli ucraini. Prendete nota. Secondo pettegolezzo, più ,prosaico: io sono di origine veneziana e non c’è nessun amico post sovietico a cui non riveli il segreto pontile lungo il Canal Grande dove con 50 centesimi ci si fa traghettare in gondola da una riva all’altra. Un passaggio in gondola quasi signorile