DALL’INSEGNAMENTO ALL’APPRENDIMENTO.
Si è fatto scuola e si continua a farla con il convincimento che nel processo di formazione l’insegnante sia una figura indispensabile di mediazione tra il sapere costituito e il bisogno di apprendere dell’alunno; un bisogno che non dovrebbe essere preso a pretesto per volerne la sottomissione, come d’altronde la funzione e la posizione dell’insegnante non dovrebbero essere sostenute da alcuna pretesa di potere. Purtroppo la funzione e la posizione dell’insegnante nel processo di formazione da qualche tempo sono state sottoposte a critiche severe, alcune delle quali più suggestive che razionalmente sostenute.
Che la scuola e quindi l’insegnante non siano più nella società della conoscenza gli unici dispensatori del sapere, non c’è nessuno che lo possa negare, perché è divenuto reperibile in ogni momento e in ogni luogo.
Che non siano più gli unici, non vuol dire che non debbano più svolgere la funzione di trasmettere conoscenze o che non lo possano più fare. Vuol dire senza dubbio che la trasmissione del sapere e delle conoscenze deve essere fatta in modo diverso rispetto al passato, ma anche che con chiarezza debba essere circoscritta, indicata e valorizzata l’area specifica che in questo campo attiene alla scuola e che solo a scuola può essere coltivata. Fatto che richiede prestazioni professionali diverse, ma connaturate alla funzione magistrale dell’insegnante, alla sua responsabilità di orientamento e di direzione nei processi di formazione.
La centralità della figura dell’insegnante nel modello educativo del passato, che ad ogni buon conto non era affatto privo di preoccupazioni per la crescita equilibrata e intelligente degli alunni, si dice che debba essere sostituita da quella che deve avere l’alunno nel modello educativo che si vuole costituire. Una rivoluzione copernicana, adatta alla sensibilità attuale, in sintonia con le trasformazioni di costume, con l’espansione dell’area delle libertà individuali.
Se il ribaltamento delle posizioni di primato nelle relazioni educative è comprensibile e anche auspicabile, si deve cercare di capire quali siano le conseguenze che ne derivano. Di fatto viene messo in discussione il paradigma educativo centrato sulla trasmissione delle conoscenze e dei valori tradizionali, che ha avuto come suo interprete autorevole l’insegnante col suo sapere. Se sono un problema di prima grandezza il ruolo e la posizione che l’alunno deve avere nelle relazioni pedagogiche, certamente in queste non può sparire l’insegnante e non può sparire il sapere. Nel triangolo educativo ci deve essere spazio per i docenti, per il sapere e per gli alunni; sarà la percezione di opportunità, che i luoghi e i tempi di volta in volta stimolano, a determinare il punto di inizio e le modalità delle relazioni reciproche nel processo di formazione. Sono, però, le finalità del sistema di istruzione e formazione a stabilire come, quando e da chi debba essere occupata la scena principale dello spazio educativo.
Si dice che è cambiata la direzione dei processi formativi e che ora si deve andare dall’insegnamento all’apprendimento e se ne parla a volte, come se questo possa avvenire a prescindere dalla figura dell’insegnante, come se l’alunno possa apprendere da solo e l’insegnante col suo sapere sia un impedimento. Posizione chiaramente insostenibile, ma che a questo non si ferma in alcuni casi, perché, anche se non esplicitamente, si arriva a parlare del primato dell’apprendimento e della capacità di apprendere, ma prescindendo dal valore dei contenuti e del sapere che si possono e si devono apprendere a scuola. A quelli che sostengono queste opinioni deve essere ricordato che l’istituzione scolastica è legittimata ad esistere perché tenuta a svolgere il compito di trasmettere da una generazione ad un’altra il patrimonio di saperi, di conoscenze, di tecniche e di valori del passato e solo per questo ha un senso che in ogni scuola si incontrino studenti e docenti. La scuola non può smettere di essere luogo di trasmissione razionale e ordinata del sapere, luogo di formazione di conoscenze strutturate. Per essere in grado di partecipare alla vita sociale ed esercitare i diritti di cittadinanza, i giovani devono prima partecipare alle grandi tradizioni del sapere, fatto possibile se una persona viene istruita e riesce a portarsi all’altezza dei saperi e delle conoscenze che è necessario possedere.
Le questioni prima esposte hanno un certo rilievo e non sono tutti risolvibili nella logica delle relazioni nel processo di formazione, perché vi sono implicati temi che sono prima e dopo di esse ed è necessario ragionarvi con pazienza e attenzione. Delle innovazioni non si deve avere paura, e quando le circostanze lo richiedono vanno introdotte, ma sapendo in partenza definire i propri fattori di riuscita e quelli eventuali di insuccesso; sapendo conoscere e praticare le regole del giuoco che si vuole fare. Non si cambia per il semplice gusto di cambiare.
I modelli educativi, che sono cosa seria, variano in funzione della concezione che si ha dell’uomo, della società e delle loro relazioni e non per caso o per moda.
ARTEFICI DEL PROPRIO APPRENDIMENTO
Nel paradigma che si vuole sviluppare ed estendere l’iniziativa dell’apprendimento viene affidata all’alunno e l’insegnante da mediatore privilegiato del sapere si trasforma in un organizzatore di situazioni di apprendimento. A soccorso di questa innovazione vengono chiamate le diverse formulazioni del costruttivismo, secondo le quali l’apprendimento è visto come attività di chi apprende, sia individualmente sia in una comunità di apprendimento. Le concezioni costruttivistiche sottolineano la centralità del soggetto apprendente che attivamente e intenzionalmente costruisce la propria conoscenza e riflette sul proprio modo di apprendere.
Sono teorie che intendono creare un quadro di intelligibilità delle pratiche didattiche, anche se non ne privilegiano qualcuna in particolare e stimolano a precisare le intenzioni pedagogiche e a determinare meglio le procedure più adeguate per gli scopi che si vogliono realizzare. Sono un quadro di riferimento, non modelli da applicare ciecamente. Per cui fare agire gli alunni nelle situazioni di apprendimento per “costruire“ le loro conoscenze, non sarà per nulla facile perché comporta un lavoro di innovazione di un certo rilievo e soprattutto perché non viene mai meno il compito dell’insegnante di convincere studenti, che spesso non mostrano particolare attenzione e interesse per tutto quello che si fa a scuola, del valore e dell’importanza degli argomenti che vengono affrontati nelle attività didattiche. Altrimenti sarebbe difficile vederli all’opera; a spingerli a lavorare non sarà la propria autonomia, ma il convincimento di fare cosa buona e giusta.
Ad ulteriore chiarimento va detto che se si possono modificare gli ambienti di apprendimento per dare spazio all’attività del soggetto apprendente, l’epistemologia dei saperi da apprendere non cambia affatto. Le strutture del sapere sui quali devono essere edificate le competenze non sono nella libera disponibilità degli alunni e dei docenti e non è una buona idea non educare gli alunni a misurarsi con i vincoli di questa necessità. Per possedere certi saperi è una necessità apprendere quel che va appreso, quale che sia il modo di apprenderlo.
Per consentire ai giovani di accedere a particolari professioni e a determinate occupazioni è assolutamente indispensabile che il tenore dei contenuti, la loro progressione debba essere stabilita da chi dirige il sistema di istruzione; responsabilità delegata alle singole scuole e agli insegnanti e che non può essere nè negata, nè trascurata, nè arbitrariamente modificata.
L’insegnante non sparisce e non può sparire; si tende a cambiargli i connotati, per trasformarlo in gestore delle interazioni socio-cognitive e comunicative e tutto questo perché il valore fondante del nuovo modello pedagogico è l’autonomia dell’alunno che in tanto è possibile formare e sostenere, in quanto viene messa alla prova nelle relazioni del processo formativo, nelle modalità di sviluppo delle procedure didattiche. Autonomia, si spera, come “capacità di autodeterminazione e di autoregolazione, secondo un adeguato senso di responsabilità verso se stessi, verso gli altri, la comunità, l’ambiente sociale e naturale” (M. Pellerey)
L’autonomia dell’alunno è una finalità di alto profilo, ma sarebbe incomprensibile che per essa si voglia alleggerire l’insegnante della responsabilità di trasmettere i contenuti della sua disciplina, per insistere sulla sua attitudine ad ascoltare gli alunni e ad incoraggiarli.
Non è scritto da nessuna parte che l’apprendimento debba essere noioso; è scritto che ci si debba preoccupare di renderlo interessante e anche piacevole, se fosse possibile.
E’ scritto soprattutto che debba essere solido e duraturo. E a proposito di iniziativa e di autonomia dell’alunno in quali campi possono essere esercitate? Sulla scelta degli argomenti? Sulle modalità del lavoro scolastico? Sulla valutazione dei risultati di apprendimento? Sulla tipologia delle prove? ”Un processo costruttivo che voglia essere valido e fecondo implica che chi lo mette in pratica abbia a disposizione un progetto chiaro e puntuale nelle sue varie componenti, sintetizzabili nella questione; perché e come. Ma è ben difficile che nel caso dell’apprendimento di nuove conoscenze il progettista e il capocantiere possa essere lo stesso studente”(M. Pellerey).
Si tende a definire l’educazione a partire dal soggetto, dallo sviluppo e dalla cura delle sue attitudini e capacità e a fare dell’apprendimento degli alunni l’unico problema della scuola: un problema dai risvolti individuali.
La scuola, però, è un’istituzione pubblica e il suo dovere è quello di trasmettere il sapere collettivo di una comunità, i suoi valori e le sue regole, di integrare nella comunità le nuove generazioni. Non si può ridurre il compito dell’educazione a quello dello sviluppo delle capacità individuali, dimenticando di indicare le finalità di interesse pubblico che vanno raggiunte. Si rischierebbe di far perdere al sistema di istruzione e formazione la sua dimensione sociale e collettiva.
E’ importante, poi, solo apprendere ad apprendere o anche apprendere anche qualcosa? Qualcosa che serva per il lavoro? Qualcosa che serva per la società ? Qualcosa che serva per la vita?
Se così non fosse tutto si ridurrebbe a metodologia del conoscere e dell’apprendere; si resterebbe in una dimensione soggettiva e quasi pre-valoriale; si svaluterebbe il sapere costituito, che è civiltà, che è tradizione, che è ambiente, che è società.
Tra conoscenze apprese e saperi c’è qualche differenza che non sempre viene tenuta presente.
”La conoscenza è individuale, mentre il sapere è collettivo. La conoscenza è relativa alla persona che la “costruisce”, il sapere è fissato da un gruppo sociale che lo ha codificato. La conoscenza appartiene alla persona; i saperi sono determinati socialmente e descritti in codici scritti, orali, etc. La conoscenza è definita dalla proprietà della cognizione, il sapere dagli attributi del codice per conservarlo e utilizzarlo (sintassi e semantica). I saperi appartengono alla logica della disciplina alla quale appartengono e alle pratiche sociali che li hanno generati”(Ph. Jonnaert).
E’ proprio perché le conoscenze sono individuali e i saperi sono collettivi viene da dire che impropriamente e ingiustificatamente il come si apprende eccede in valore su ciò che deve essere appreso come futuro lavoratore e come futuro cittadino.
IL MAGISTERO DELL’INSEGNANTE
Le ricerche di John Hattie sull’efficacia delle metodologie didattiche hanno messo in evidenza la funzione centrale del docente nei processi di formazione e che quando manca la sua direzione gli approcci didattici innovativi, ai quali si affidano molte speranze, non danno i risultati sperati. I metodi meno direttivi favoriscono gli alunni migliori, mentre danneggiano i più deboli, perché per loro è più pesante il carico cognitivo per fare fronte alle responsabilità loro assegnate. Le procedure di insegnamento diretto, contro le quali si continua a schierarsi, danno migliori risultati.
”Quando l’insegnamento esplicito è chiaro e il docente mette in luce i passaggi fondamentali e le variabili critiche di quanto espone, evidenzia i percorsi e gli schemi mentali che debbono essere utilizzati e l’appropriato vocabolario che deve essere padroneggiato, egli rende visibile ed esplicito quanto potrebbe rimanere nascosto e implicito. ”(M. Pellerey).
Se un alunno deve affrontare un contenuto nuovo e di un certo spessore culturale e teorico, il buon senso dice che è opportuno che venga introdotto nei concetti che lo costituiscono e che venga guidato nelle pratiche messe in campo per acquisirne le abilità essenziali. Solo dopo che avrà acquisito gli elementi fondamentali e li ha conservati ben strutturati nella sua memoria può essere indirizzato a svolgere in autonomia le proprie ricerche o a risolvere i problemi che gli vengono assegnati. L’insegnamento esplicito e diretto, che nella lezione, ha uno dei modi di realizzarsi, non toglie nessuna iniziativa all’alunno, non ne menoma il compito e l’impegno di apprendere, anzi facilita questa avventura intellettuale, perché toglie di mezzo tanti ostacoli superflui. Sono il significato e la funzione che si danno a questo tipo di intervento a determinare il grado di autonomia che viene lasciato all’alunno e che si dà alla sua attività di apprendimento. Lasciato a se stesso non è detto che l’alunno eserciti la sua autonomia nel modo migliore e più efficace. L’insegnamento diretto non si riduce chiaramente alla lezione frontale, e tutti gli altri modelli didattici non possono fare a meno della direzione e della guida culturale dell’insegnante.
Solo svolgendo la sua funzione magistrale l’apprendimento dell’alunno potrà essere costruttivo, stabile, significativo e fruibile. Il suo compito non si colloca dopo l’apprendimento dell’alunno, ma prima e accanto e non è ragionevole e in alcun modo giustificato ridimensionarne l’importanza. Certamente l’alunno apprende da sè e nessun altro può farlo al suo posto, ma appoggiandosi sul sostegno e l’esperienza dell’insegnante. Per apprendere l’alunno ha bisogno di incontrare situazioni di comunicazione, di scambio e di confronto con chi ha esperienza e conoscenza.
Con questo non si vuole dire che il sapere dell’insegnante debba essere replicato dall’alunno, ma che è necessario per fare comprendere la distanza tra esperienza personale e sapere costituito, la complessità dei contenuti ai quali ci si deve avvicinare, le difficoltà per conquistarli, l’inestinguibilità del dovere di conoscere. La sua salvaguardia è la salvaguardia del rilievo culturale e scientifico delle discipline di cui sono responsabili e del curriculum in cui si sostanzia la funzione conoscitiva ed educativa della scuola. Il loro sapere serve per fare apprendere e se utilizzato bene per fare comprendere. Insomma l’insegnante non è un tecnico di laboratorio e nemmeno uno psicologo. Nessuno mette in discussione che ci sia bisogno di una diversa relazione educativa tra docente e alunno; una relazione da instaurare sul principio del valore intrascendibile della persona dell’alunno, che ha tutto il diritto di sapere, di capire e di farsi sempre una propria idea; perché solo la sua partecipazione attiva al processo di formazione renderà solido l’apprendimento. Nessuno mette in discussione che per fare crescere in autonomia e in libertà l’alunno, bisogna interpellarlo, aiutarlo a problematizzare, coinvolgerlo in attività di elaborazione di senso, dargli fiducia, Nessuno, se tutto ciò viene fatto, ha bisogno però di escogitare nuovi primati nelle relazioni educative.
”Certo anche nelle altre classi si insegnavano molte cose, ma un po’ come s’ingozzavano le oche. Si presentava loro un cibo pre-confezionato e si invitavano i ragazzi ad inghiottirlo. Nella classe del signor Bernard per la prima volta in vita loro sentivano invece di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo” (A. Camus).