Istruire è diverso da forgiare (a proposito delle competenze non cognitive)

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di  Giuseppe Bagni
(per gentile concessione dell’autore della Associazione CIDI)

Si fa fatica a commentare il Ddl approvato alla Camera l’11 gennaio scorso che vuole l’introduzione di competenze non cognitive nei percorsi formativi. Verrebbe voglia di fermarsi a una alzata di spalle, scuotere la testa in sala insegnanti e continuare il proprio lavoro nella scuola reale.
Quella che evidentemente è sconosciuta nelle sedi parlamentari. Eppure si deve commentare, perché la deriva verso cui si sta andando è grave e non può essere ignorata né minimizzata. La proposta approvata nel primo passaggio parlamentare mette in evidenza la convinzione che la scuola debba ammodernarsi rompendo il dominio del cognitivo e del formale per essere, come ha dichiarato Valentina Aprea, “volano delle economie innovative e creative, per poter consentire crescita, sviluppo e risoluzione dei problemi del nostro tempo in una prospettiva originale…”
Il propugnare un qualunque livello di originalità risulta paradossale se confrontato con il progetto di mettere le mani fin nella sfera più interna degli allievi per forgiarne il carattere.
Come se l’amicalità, la coscienziosità, la stabilità emotiva e l’apertura mentale fossero attitudini insegnabili direttamente dalla cattedra invece che il risultato della metabolizzazione personale delle conoscenze acquisite, dei legami costruiti, delle testimonianze offerte loro nella scuola.
Una scuola secondo Costituzione non forgia il carattere, non cerca elementi di valutazione nell’animo dei suoi allievi; crea e offre le condizioni per favorire “lo sviluppo armonico e integrale della persona”.
Le competenze non cognitive non sono oggetti misteriosi per la scuola: le norme e i suoi documenti vi fanno riferimento da molti anni.

Quando si parla di partecipazione, di cooperazione per il conseguimento di obiettivi comuni, oppure di capacità di iniziativa autonoma, di utilizzo delle risorse per risolvere un problema, di cosa si parla se non ci competenze non cognitive? Ma collaborazione, consapevolezza del compito, rispetto delle regole comuni sono qualità osservabili (e indubbiamente da osservare e valutare) nel processo di apprendimento di ciascun allievo.
Sono le soft skills di cui tanto si parla che sicuramente la scuola deve sviluppare perché importanti per il successo scolastico e fondamentali per la formazione del cittadino.
Ma altra cosa è saccheggiare la psicologia della personalità per proporre character skills che fanno riferimento alla personalità di ciascuno.
Vogliono i parlamentari che la scuola insegni in base ai livelli “giusti” di estroversione, di creatività, di stabilità emotiva degli allievi? E chi li stabilisce? Questa è un’ipotesi degna di un film distopico. Che le character skills siano l’ultima novità alla base dei test del mondo produttivo centrati sulla valutazione della personalità dei candidati non fa altro che confermare la forza (purtroppo crescente) della visione che vuole la scuola suddita delle logiche economiche.
Colpisce l’unanimità del voto in favore del disegno di legge perché dimostra una volta di più quanto sia diffusa l’ignoranza sulle norme della scuola, ma soprattutto allarma che non ci si sia resi conto che in gioco qui non è la riaffermazione, abbastanza scontata, che vi sia la necessità di curare la persona nella sua interezza e integrità, ma una precisa visione di scuola che vuole l’abbandono della cosiddetta “egemonia del cognitivo”, seguendo le tesi di alcuni teorici che vorrebbero la scuola centrata sulle character skills integrate con un “cognitivo” limitato al classico saper leggere, scrivere e far di conto, con l’aggiunta dell’informatica e dell’inglese.
Questa sarebbe la modernità? No, sarebbe la fine della scuola pubblica e il tradimento del suo mandato costituzionale. Qui non si vuol difendere la scuola così com’è: la scuola ha bisogno di cambiare per svolgere il compito che la Costituzione le ha assegnato, ma l’innovazione necessaria non è quella sottesa alla visione che sta dietro (e nemmeno tanto nascosta) alla proposta propugnata nel disegno.
La scuola deve educare la persona, offrendo il contesto migliore per il libero sviluppo della personalità, valorizzando le dimensioni relazionali ed emozionali di chi apprende. Ma educa solo se istruisce. Se qualcuno vede in questo l’egemonia del cognitivo, pace. Questa è la scuola della Costituzione. Solo se insegniamo a formalizzare l’esperienza che si fa del mondo mettendo a disposizione i diversi sguardi delle discipline si può sviluppare le potenzialità di ciascuno, valorizzando il patrimonio informale e non-formale che ogni allievo e allieva porta nel suo zaino in classe.
E qui si apre un altro tema: cosa sono i nostri studenti? Una tabula rasa da modellare secondo le esigenze del mercato? Sono anime perse, soggetti pericolosi da plasmare? Personaggi in cerca di autore? No, sono gli autori. La sceneggiatura spetta a loro.
La scuola non può essere il luogo della normalizzazione e omologazione. Non può darsi l’obiettivo di un loro adattamento al “possibile” – qui e ora – che disperda l’immensa risorsa del “pensabile” per il loro futuro. Che poi è quello di tutti noi.