La nuova emergenza Covid: riparare le ferite dell’infanzia e dell’adolescenza volgendo lo sguardo al futuro

di Antonio Valentino

Tra dati di fatto e percezioni fondate

Sulla questione ‘nuova emergenza Covid’, considererei soprattutto i seguenti aspetti:

  1. Il dato di fatto con cui anche la scuola è costretta a confrontarsi in queste settimane – con la variante ‘Omicron’ che impazza – è che l’uscita dal Covid non ci è ancora dato di vederla all’orizzonte, come si pensava fino ad alcune settimane fa grazie alla vaccinazione di massa in atto da mesi.
  2. Comunque la crescita percentuale del contagio nelle ultime due settimane (10-16 e 17-22 gennaio) ha continuato a scendere: vi sono ormai “evidenze certe di una decelerazione della curva epidemica, in linea con quanto osservato in altri Paesi” (Franco Locatelli, Coordinatore del CTS)
  3. È percezione fondata che il contagio con l’ultima variante non sembra comportare i rischi gravissimi (persone in terapia intensiva e esiti letali) delle prime ondate, a seguito delle misure adottate.
  4. Le consapevolezze dell’attuale situazione – a. la convivenza obbligata col virus però depotenziato nei suoi esiti più dolorosi (il riferimento è alla variante ultima, la più contagiosa); b. gli strumenti di difesa dal Covid sempre più disponibili e mirati – è condizione di un diverso sguardo anche sul futuro prossimo del mondo scolastico.

Proviamo, con i ragionamenti che seguono, a riavvolgere il nastro di questa storia degli ultimi due anni con riferimento alla scuola, per individuare qualche direzione di marcia sensata e possibile, per gestire al meglio la fase sulla base dei dati e delle consapevolezze di cui ai punti precedenti.

A tal proposito, è opportuno richiamare in prima battuta che il blocco delle attività didattica in presenza nel 2020 – e l’avvio della Didattica a Distanza (DaD), è stato certamente l’evento tra i più drammatici che il mondo della scuola abbia vissuto dal secondo dopo guerra.

Va però anche detto che la Dad ha limitato in parte i danni di tale blocco sulla vita delle scuole ed ha, tra l’altro, reso evidente, riportandole in primo piano, non solo le inadeguatezze pesanti della scuola sul fronte delle tecnologie informatiche (strumenti e formazione); ma anche e soprattutto ha ridato evidenza, ulteriormente acutizzandole, alle vecchie ferite del sistema, attraverso le molte ricerche, inchieste, articoli e saggi e commenti che, a partire già dalle settimane in cui si concludeva il primo anno scolastico segnato dalla pandemia, hanno alimentato il dibattito sul presente e il futuro della scuola.

Ricerche e dibattiti che in modo generalizzato  esprimevano preoccupazioni estese e profonde ma anche nuove e generalizzate attenzioni e propositi di una ripartenza che non fosse un ritorno al passato pre-pandemia; che non riproducesse cioè le stesse disfunzioni, arretratezze, traumi, ingiustizie del sistema vigente.

Sul fronte studenti si evidenziavano soprattutto – come è noto -, con sottolineature più o meno preoccupate, oltre al peggioramento pressocché generalizzato degli apprendimenti, anche a. l’aumento delle diseguaglianze nel rendimento scolastico e degli abbandoni, come conseguenza delle disparità sociali e  b. la drammaticità degli effetti del lockdown su bambini e adolescenti, in termini di disturbi comportamentali e psicofisici e di difficoltà di concentrazione; sui quali ci ha richiamati recentemente il Presidente di Proteo Fare sapere nazionale, Dario Missaglia[1].

Sul fronte insegnanti, i dati e le testimonianze raccolte riportavano invece in primo piano – assieme all’ impegno complessivamente generoso e generalizzato del mondo della scuola – le carenze di una cultura professionale non attrezzata a fronteggiare situazioni così nuove e impegnative; e non solo per carenze nella gestione mirata degli strumenti informatici.

In quei mesi – si ricorderà – ‘ripartenza’ e ‘riprogettazione’ entravano con nuova forza nel dibattito sulla scuola tanto, da diventarne parole d’ordine particolarmente diffuse.

Dal bisogno diffuso di “ripartenza” alle tendenze al recupero di una ‘normalità’ pre-pandemia

‘Niente sarà più come prima’ – ricordate? – è stato lo slogan più diffuso di quella stagione che ha caratterizzato soprattutto gli ultimi mesi del 2020 e i primi del ’21. Uno slogan che se da una parte sottolineava che non si poteva più far finta di niente rispetto ai mali vecchi e nuovi che venivano riportati in primo piano, dall’altra includeva anche il richiamo alle opportunità, da saper cogliere, che si aprivano con le tecnologie digitali.

In realtà le parole d’ordine prima richiamate, per quanto ripetute con accenti appassionati, non riuscivano però a tradursi in iniziative evidenti di rinnovamento, per ragioni immediatamente comprensibili.

Le incertezze e una certa confusione nella gestione della pandemia soprattutto nella prima parte dell’anno scolastico, assieme alla mancanza di misure di difesa certa dal virus, hanno di fatto determinato situazioni di stop and go, soprattutto nella secondaria, che hanno di fatto impedito di pensare ad altro che non fosse quello di salvare il salvabile. Certamente le scuole si erano attrezzate al meglio, rispetto all’anno precedente, con le tecnologie necessarie; e gli insegnanti avevano imparato a organizzarsi e a utilizzare le nuove dotazioni messe a disposizione.

Per le parole d’ordine dei mesi precedenti non c’era però spazio. Erano state confinate – e lo sono ancora – in uno spazio tutto loro, in attesa di tempi migliori.

Lo stesso Il PNRR, nel quale il nuovo Governo Draghi è stato impegnato negli ultimi mesi dello scorso anno scolastico e che pure prevedeva misure importanti e urgenti per la scuola, ben poco l’ha coinvolto anche sul tema della ‘ripresa’, che pure è parola chiave di quel Piano.

In questi ultimi mesi è sembrata prevalere su più fronti la preoccupazione pressocchè unica di recuperare una normalità che sembra avvicinarsi alle forme di quella pre-pandemia.

Di ripartenza si è parlato sempre di meno in quest’anno scolastico e lo slogan prima ricordato non è più sembrato essere molto ‘popolare’.

E questo, nonostante le scadenze per il rinnovo del POFT e la riscrittura del RAV, previste dal calendario scolastico ’21.’22, che sarebbero potuto / dovuto essere una occasione per interrogarsi sul passato recente e derivarne indicazioni per la riprogettazione dell’offerta formativo del nuovo triennio.

L’interrogativo che verrebbe da porsi, alla luce delle considerazioni con cui si è aperta queta nota (le nuove incertezze portate dalla preoccupante contagiosità della nuova variante, ma anche le consapevolezze nuove sopra richiamate), è se l’attuale situazione generale socio-sanitaria, per quanto ancora problematica, possa giustificare del tutto l’accantonamento – o il rinvio – delle questioni della ‘ripartenza’.

“Niente sarà come prima”. Uno slogan ‘perso’?

Recupero qui, in ordine sparso, dalle cose lette e sentite e scritte di quel periodo, alcuni elementi (questioni, attese, priorità) tra quelli che ancora oggi mi sembrano particolarmente significativi.

Si ricorderà certamente che all’inizio dell’anno scolastico 2020-’21, al centro delle preoccupazioni, soprattutto dell’Amministrazione centrale, c’erano questioni più legate agli effetti della situazione che si stava vivendo: il previsto recupero e sostegno per i percorsi formativi ‘saltati’ – più prosaicamente: le parti di programma non svolte (nel secondo quadrimestre dell’a.s. ’19-‘20).

Ma nel dibattito tra gli addetti ai lavori, frequenti e insistiti erano i richiami ai problemi più legati al funzionamento incerto e preoccupato delle scuole e al carico di ansie, difficoltà relazionali e psicologiche che emergevano nei bambini e nei ragazzi e che chiedevano risposte che non arrivavano.

Mi riferisco

  1. alla necessità di superare, nella professione docente, comportamenti autoreferenziali e individualistici, sempre molto diffusi, e di rendere abituali pratiche cooperative e interazioni e, insieme, cura del contesto (i suoi spazi e loro dotazioni), come condizioni per migliorare la partecipazione degli studenti alla vita della scuola e qualificarne la formazione culturale e sociale;
  2. ad una idea di scuola in grado di coltivare – attraverso misure e riconoscimenti opportuni – la sua autonomia non solo didattica e organizzativa, ma anche ‘di ricerca sperimentazione e sviluppo’ (recupero pieno di quanto prevede l’art 6 del Regolamento del DPR 297/99); e di liberarsi dalla vocazione impiegatizia ancora persistente tra i suoi operatori;
  3. ad una filosofia progettuale, per quanto riguarda il ricorso al digitale, che evidenziasse la necessità di un approccio metodologico volto sia a sviluppare la “capacità di imparare a valutare le potenzialità d’uso, le implicazioni etiche, economiche e sociali delle nuove tecnologie”, sia a favorire “la contaminazione fra strumenti nuovi e vecchi, tra digitale e analogico, senza contrapposizioni ideologiche e con un approccio pragmatico” [3].

Questi soprattutto i termini del dibattito già meno di un anno fa. L’impressione che si ha oggi è che la maggior parte di quelle preoccupazioni e di quei ragionamenti si siano un po’ persi per strada, e che il futuro che si tende a prefigurare in questi ultimi mesi – già prima dello scatenarsi della nuova ondata di contagio – non sembra diverso dal quadro complessivo pre-pandemia, che pure si era giurato di voler cambiare in profondità.

Ci sarebbe da interrogarsi sulle ragioni dell’offuscamento (rimozione?) dei propositi prima richiamati; e se non possono essere liquidate semplicemente con la giustificazione – pure immediatamente  comprensibile – delle difficoltà a gestire le scuole in una situazione in cui la pandemia, che di preoccupazioni, ansia e lavoro aggiuntivo – e quindi stanchezza – ne continua a produrre a iosa.

Ragionando sulle ragioni altre della ‘rimozione’.

A volerci pensare su, si potrebbe dire che a facilitare questo ritorno alla scuola pre-pandemia ci siano alcuni elementi endemici della cultura metodologico-didattica e organizzativa della nostra scuola, che riprenderei sinteticamente così:

  • la prevalenza della lezione fatta di spiegazione-compiti-interrogazione-voti (oggi un po’ in crisi, ma mica poi tanto) e quindi
  • la poca diffusione della diversificazione delle strategie di insegnamento e apprendimento e la scarsa attenzione alla relazione di reciprocità (per quanto necessariamente asimmetrica) nella gestione degli studenti;
  • la non generalizzata attenzione al principio di cura, almeno nei termini in cui andrebbe più efficacemente coltivato;
  • la insufficiente attitudine a diffondere e valorizzare le esperienze più significative che pure nelle scuole si realizzano, senza però (quasi) mai farle diventare patrimonio comune e pratiche diffuse.

A proposito di quest’ultima problematica va evidenziato come essa faccia il paio con la cultura individualistica e autoreferenziale di cui si è detto, che continua ad essere ancora prevalente, e che ha generalmente ignorato:

  1. la dimensione collettiva e sociale del lavoro – e dell’apprendere attraverso il lavoro e le esperienze sul lavoro – ai diversi livelli (si pensi soprattutto alle articolazioni funzionali del collegio: dai consigli di classe/interclasse ai dipartimenti e ai gruppi di progetti o di coordinamento -; ma anche al lavoro d’aula),
  2. l’attitudine al diffondersi, anche solo a titolo sperimentale, delle pratiche più efficaci.

Ma si dovrebbe anche richiamare, per chiarire i fattori che stanno probabilmente contribuendo al ritorno quasi automatico alla situazione scolastica pre-covid, che la cultura professionale del nostro sistema scolastico si è generalmente sviluppata dentro orizzonti culturali e professionali che hanno poco valorizzato e coltivato la ricerca pedagogica e didattico-organizzativa di casa nostra (e questo meriterebbe un discorso a parte soprattutto per quanto riguarda i rapporti difficili e sostanzialmente infruttuosi tra università e mondo scolastico – con poche ma importanti eccezioni). Non solo, ma  ha anche sostanzialmente ignorato la ricerca internazionale; privilegiando, anche nella formazione all’insegnamento, pratiche che hanno preso in ben poca considerazione le varie dimensioni dell’apprendere.

Soprattutto, l’importanza di fare squadra e la modalità situata, collettiva della crescita professionale, come anche l’apprendimento fondato sull’esperienza e la riflessione partecipata, non hanno mai toccato più di tanto la maggior parte delle nostre scuole[4].

Concludendo

A questo punto – se non si vuol dare per scontato che le parole d’ordine della ‘ripartenza’ qui spesso richiamate abbiano definitivamente perso valore e senso,  e non debbano quindi trovar posto neanche in seguito, nell’agenda delle scuole, iniziative  volte a  tenerne viva l’attenzione – c’è da chiedersi in qual modo e con quali prospettive recuperare, sulle tematiche che le considerazioni svolte ripropongono, almeno dentro l’orizzonte dei ‘memoranda’ (dalla relazione all’apprendimento organizzativo, dalle strategie plurali dell’insegnamento alla ricerca-azione …), filoni di ricerca e teorie, più o meno recenti, in grado di offrire stimoli e strumenti per fronteggiarle – tali tematiche – con maggiori cognizioni di causa.

Riguardo specificamente ad esse, si vogliono qui richiamare, in aggiunta alle segnalazioni precedenti e in prima battuta, gli studi e le sperimentazioni, nell’ambito delle teorie sociologiche della conoscenza, sviluppati soprattutto negli Stati Uniti[5]  – a partire indicativamente dagli anni 70 del secolo scorso e proseguiti anche nel nuovo millennio.  Studi e ricerche che hanno coinvolto accademici e ricercatori/studiosi di altri paesi e anche di alcune nostre università[6].

Da sottolineare qui in modo particolare, oltre alle loro innovative elaborazioni sulle problematiche sopra richiamate, i loro contributi sul fronte della formazione nella dimensione ‘situata’, sul campo, in quanto condizione particolarmente stimolante per una cultura professionale degli insegnanti attenta ai bisogni formativi e alle attese di studenti e territorio.

Annotazioni, queste ultime, volte a sottolineare – concludendo – che nessuna eventuale ‘ripartenza’ può’ avere sviluppi importanti e innovativi con la semplice logica del fai da te; senza cioè recuperi e ri-appropriazioni di studi, ricerche, esperienze, che siano promettenti quanto a stimoli, allargamento d’orizzonti e proposte operative.

NOTE

[1] “Ricerche condotte in tutto il mondo e con dovizia di dati e numeri anche in Europa (…), ci dicono che il prolungarsi di questa fase di pandemia, con il suo carico di ansie, paure, limitazioni, riaperture e nuove chiusure, ulteriori richiami di vaccino, incertezza sul futuro, sta producendo ferite gravi e profonde nel mondo dell’infanzia e dell’adolescenza” (D. Missaglia, Allarme rosso, in www.proteofaresarere.itnewsnotizie  13.1.2022). In questo contributo il Presidente nazionale di Proteo Fare Sapere esplicita il concetto di pandemia secondaria che “indica la vasta gamma di conseguenze psicologiche, relazionali, emotive, cognitive che risultano compromesse dal prolungarsi della pandemia. Secondaria (…) non per importanza minore rispetto alla pandemia che produce ricoveri in terapia intensiva e decessi quotidiani…”.

[3] Sulle proposte al riguardo ho condiviso soprattutto l’elaborazione del cap. 3 (Il Digitale “Senza se e senza ma, pp. 50-55) del Rapporto finale del 13 luglio 2020: “Idee e proposte per una scuola che guarda al futuro rapporto finale”, del  Comitato di esperti D.M. 21 aprile 2020. Coordinamento:  Prof.  Patrizio Bianchi. Le parti virgolettate sono state stralciate integralmente dal Rapporto.

[4] Non sono ovviamente le nostre scuole le prime indiziate, perché soprattutto altrove vanno individuate le maggiori responsabilità al riguardo.

[5] I nomi d’obbligo per quanto riguarda questo filone di ricerca sono – come si ricorderà – quelli di Donald Schön e di Chris Argyris, da noi noti non solo in ambito universitario. Ai quali vanno affiancati Jean Lave e Etienne Wenger, i cui contributi di ricerche e studi, nei decenni soprattutto a cavallo del 2000, sono confluiti nella elaborazione del concetto di Comunità di pratica. Nel quale è fondamentale il fattore solidarietà organizzativa tra soggetti che operano nello stesso ambito e si aggregano perché motivati/sollecitati a migliorare la propria pratica professionale. Le pubblicazioni più citate: C. Argyris, D. SchonApprendimento organizzativo, Guerini e Associati, Milano, 1998; A.D. Schön, (1999) Il professionista riflessivo: per una nuova epistemologia della pratica, Bari, Dedalo; Lave, J & WengerL’apprendimento situato. Dall’osservazione alla partecipazione attiva nei contesti di apprendimento. Erickson, 2006 (prima pubblicazione: Cambridge University Press, 1991); E. Wenger, R. McDermott, & W. M. Snyder, Cultivating Communities of Practice, Coltivare Comunità di Pratica. Prospettive ed esperienze di gestione della conoscenza, guerinNext editore, 2007 (prima pubblicazione: HBS Press 2002).

[6] In campo universitario mi piace ricordare – ma sarebbero ben più numerosi i nomi da citare – soprattutto Francesco De Bartolomeis e Piero Romei; il primo in modo particolare per ‘La Didattica come antipedagogia’ e per la sue pubblicazioni sul lavorare in gruppo; il secondo, per ‘La scuola come Organizzazione’ in cui si sviluppa la nozione di Unità operativa, avvicinabile, con qualche approssimazione, al concetto di ‘Comunità di Pratica’ di Wenger e Lave. Su autonomia e organizzazione della scuola nella prospettiva di comunità di pratica, pubblicazione ancora stimolante: L. Benadusi, R Serpieri, (a cura di), Organizzare la scuola dell’autonomia, Carocci 2000, con contributi, oltre che dei curatori, di M. Tomassini, A.M. Ajello, V. Ghione, ….. Di quegli anni anche, P.G. Ellerani, La costruzione della comunità di apprendimento sostenuta dal Cooperative Learning. Progetto avviato dalla Provincia di Torino – A.s 97-98, proseguito nel 2003-2005.