Verso la scuola del post-pandemia (purché non sia quella del pre-pandemia)

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di Stefano Stefanel

La pandemia che non vuole finire e che ricompare sempre sotto mutate sembianze, costringendo a rincorrere le emergenze, non ha permesso di trovare soluzioni a problemi vecchi e ha messo tutti davanti ad ostacoli nuovi. Se andiamo indietro nel tempo a due anni fa credo nessuno possa sostenere che la scuola, così com’era, funzionava perfettamente e non aveva bisogno di particolari interventi. Venivamo da vent’anni di riforme incompiute e di risultati certificati come non soddisfacenti e le strade che si aprivano non mostravano, comunque, porti sicuri.
Due anni dopo ci siamo spostati da dove eravamo, ma i problemi si sono ingigantiti, senza che venisse in mente a nessuno una soluzione condivisa, un’idea chiara e distinta, una strada con un punto d’approdo certo. Il sistema scolastico italiano riesce ad individuare con chiarezza i suoi mali, ma stenta a trovare i rimedi; individua con altrettanta chiarezza i suoi punti di forza, ma non li fa diventare sistema, preferendo isolarli dentro una sorta di eguaglianza scambiata per equità.

Una delle evidenze maggiori portata allo scoperto dalla pandemia è il tentativo di affrontare con sistemi tradizionali una situazione emergenziale in costante mutamento. A due anni dalla pandemia non solo non è chiaro come ne usciamo, ma nemmeno cosa faremo o dovremmo fare per limitare i danni al sistema scolastico ed educativo che l’emergenza ha prodotto.
Anche perché il nostro sistema scolastico è in perenne affanno ed ha una sua intrinseca fragilità, dentro meccanismi come le graduatorie permanenti, i mansionari rigidi del personale ata, le difficoltà di reclutamento di docenti di valore, la facoltatività oggettiva della formazione, l’alta dispersione scolastica, l’enorme numero di giovani che non studiano e non lavorano.
Da due anni il problema maggiore, però, è quello di come rientrare a scuola tutti insieme e contemporaneamente, per poi ritrarsi davanti a bollettini terribili, a norme di complessa attuazione, a soldi che non sempre aiutano a risolvere le molte contingenze. È vero che tutti speriamo che questa sia l’ultima emergenza e che presto tutti saremo di nuovo insieme dentro le scuole senza distanziamenti, senza mascherine, senza quarantene. Ma è anche vero che in due anni non siamo riusciti a dare un contenuto didattico e formativo all’emergenza. Il primo anno sono stati promossi tutti gli studenti, il secondo anno si è tornati alle bocciature, il terzo anno (questo) sarà una grande finzione di normalità che sfocerà in esiti punitivi su studenti che sono oggettivamente rimasti indietro. Il tutto giocato sempre dentro azioni emergenziali in attesa che “passi la nottata”.

Se la cosa più importante è sempre stata il tornare a scuola non è nato alcun dibattito su cosa dentro la scuola in cui si è tornati era meglio fare. Personalmente sono tra quelli che hanno sperato (invano, temo) che questa emergenza levasse alcune pratiche del passato molto punitive per il sistema scolastico italiano, ma sono anche tra quelli che prende atto del desiderio predominante di restaurazione. Anche, però, se si è disponibili a ragionare se sia meglio l’innovazione o la restaurazione, non pare ci sia nessuno che abbia realmente voglia di farlo. Prendete tutta la questione del digitale: da un lato si tende alla sua demonizzazione collegandolo alla Didattica a distanza vista come male assoluto, dall’altro si nega alla Didattica digitale integrata una vera cittadinanza, ma dall’altro lato ancora si finanziano progetti con cifre molto consistenti proprio per la transizione digitale.
Ma anche sulla questione dell’ecosostenibilità non si va mai veramente al fondo delle cose per far uscire le materie scientifiche dal loro retaggio passato e autoreferenziale e farle entrare nel mondo del futuro (degli algoritmi, del problem solving, della complessità informatica, delle bio-tecnologie, dell’eco sostenibilità, ecc.). Se un compito in classe vale più di mille lavori di ricerca e di analisi decisamente la transizione ecologica avrà vita piuttosto combattuta in Italia, ma, soprattutto, sarà appannaggio delle multinazionali e non di un Sistema Italia che dia un futuro professionale ai suoi giovani laureati in materie scientifiche.

Un’altra questione di grande interesse, legata all’emergenza, è quella delle rilevazioni nazionali e dei vari monitoraggi. In questo labirinto di numeri ognuno li usa per il suo scopo, magari premettendo che sono numeri inficiati da situazioni alterate dalla pandemia o mitigati nella loro profondità da risultati acquisiti a macchia di leopardo. Ma poi tutto cade dentro il calderone dei dati trattati tutti come sondaggi, come tendenza, come classifica. Non c’è nessun senso critico nell’analisi confusa dei risultati Invalsi (resi deboli da rilevazioni avvenute in emergenza e non complete), dei dati di Eduscopio (totalmente fuorvianti), dei monitoraggi sui contagi a scuola, di quelli sull’uso dei mezzi di trasporto, di quelli sulle connettività, di quelli sugli esami di stato. E quindi ognuno di noi usa i numeri che più gli fanno comodo, si compara con chi decide di compararsi, espone teorie ed opinioni sperando che si trasformino in dati.

La pandemia ha aumentato una tendenza a mostrarsi più forti di quello che siamo, quasi che le nostre debolezze nascessero da nostre inadempienze e incapacità, e non da una situazione oggettivamente drammatica. Tutta la questione delle povertà educative in aumento sta lì a dimostrare che la situazione oggettiva è grave e lascerà strascichi anche in futuro. E allora perché non si è pensato in questi due anni a come supportare i contenuti dell’apprendimento e non solo l’ingresso a scuola? Credo perché abbiamo avuto tutti paura di dimostrarci deboli, paura che le nostre debolezze venissero scambiate per incapacità e dunque cercando di nasconderle.

Invece io credo che dobbiamo avere paura di un futuro che sembri il passato e da questa paura dobbiamo farci nascere una nuova idea di comunità che ci faccia comprendere come valorizzare le eccellenze e dare riparo e aiuto a ciò che non è eccellente. Non servono proclami ed esposizioni, non serve una costante presenza sui social a magnificare sé stessi. Serve, invece, saper dare conto di quello che si fa. Tutto questo non è aiutato dalle incombenze eccessive ed invasive che costringono ogni giorno chi lavora a scuola a sopportare il carico di inutile burocrazia che assale da ogni parte. Penso si debba cominciare ad imparare a misurare il valore aggiunto (dell’apprendimento, dell’insegnamento, della valutazione, delle risorse, delle sinergie, della formazione, dell’efficienza, dell’efficacia), ma partendo dalla reale situazione in cui ci si trova e non richiamandosi ad una passata età dell’oro che non è mai esistita. Essere severi e critici con noi stessi per capire quanto siamo deboli e quanto bisogno di aiuto abbiamo.

La scuola ha bisogno delle società, delle famiglie, della politica, delle amministrazioni locali, delle università, del mondo dello sport e del volontariato, della cultura, del mondo della comunicazione e di altri ancora. Ma anche questi mondi hanno tutti bisogno della scuola e senza la scuola non sanno come fare. Se siamo diventati soggetti formativi ma anche di supporto al welfare, se le famiglie hanno bisogno di noi non solo per l’apprendimento ma anche per avere un luogo dove lasciare i bambini e i ragazzi, se la società ha bisogno che da noi si affini il senso civico allora bisogna costruire alleanze partendo dalle nostre debolezze. Dobbiamo lavorare per una scuola che risponda alle esigenze del futuro e della società, non che ricordi tempi passati e che si condanni così ad essere lontana dai ragazzi che deve formare.