Figure di sistema e questione organizzativa. Farci i conti

di Antonio Valentino

Perché parlare delle “figure di sistema” [1]

C’è un problema oggi – tra i tanti del nostro sistema scolastico – di cui spesso si parla, ma che si fa difficoltà ad aggredire: la demotivazione di larga parte dei docenti, che spesso non li fa sentire dentro il ‘progetto culturale ed ‘educativo’ delle proprie scuole; e li spinge verso una visione vicina a quella impiegatizia del proprio lavoro.

Sono considerati sostanzialmente come optional attività come: coltivare competenze e ed esercitare responsabilità (nel senso di aggiornare e sviluppare capacità professionali e di dar conto dei processi che si mettono in atto e dei risultati in rapporto a quello che si progetta); o vivere positivamente la dimensione collegiale del proprio lavoro.

Per capire meglio il problema dall’interno, è opportuno allargarne il quadro di riferimento alla più larga e impegnativa questione organizzativa delle nostre scuole che, su questo aspetto specifico, si lega al tema – anch’esso ancora problematico – dell’Autonomia scolastica.

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Comunità educante o Sistema nazionale di istruzione?

di Giovanni Fioravanti

La consideravo archiviata, appartenere ad altri tempi, una sorta di attrezzo arrugginito del secolo scorso, riposto in soffitta tra la polvere delle cose da abbandonare all’usura del tempo. Poi l’espressione in questi lunghi mesi stravolti dalla pandemia ha iniziato a salire di tono, a ridondare nel lessico ministeriale e in quello scolastico: la “comunità educante”.

Incuriosito sono tornato a leggere la lettera che il 27 marzo 2020 la ministra Azzolina ha indirizzato alla comunità scolastica nella quale l’espressione “comunità educante” ricorre ben due volte. Non c‘è documento ministeriale dall’inizio della pandemia in cui compaiano espressioni come società della conoscenza, apprendimento permanente, come se le nostre istituzioni scolastiche fossero calate in un altro mondo, quello ancora del secolo scorso insieme alla loro scarsa familiarità con le nuove tecnologie.

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Istruzioneducazione

di Simonetta Fasoli

No, non è un refuso quello che si legge nel mio titolo. È un modo per richiamare il nesso inscindibile che caratterizza, o dovrebbe caratterizzare, il nostro sistema scolastico. Dove comincia l’una e dove finisce l’altra? A mio avviso, si tratta di una questione mal posta e insomma indecidibile.
Un fatto è certo: se si perde di vista questo tratto, si va incontro a derive che hanno radici antiche e che purtroppo sembrano allungare le proprie ombre sul presente e sulle sue prospettive. Detto altrimenti: una visione unilaterale della scuola ridotta alla sua funzione di istruzione o, alternativamente, circoscritta al suo compito educativo produce effetti perversi.
La storia ce lo insegna, fino alla più stretta attualità.
Nel primo caso, ecco fiorire prese di posizione, documenti che solennemente sollecitano al ritorno alla scuola delle “conoscenze”, all’ora di “lezione” come stella polare di un sistema smarrito. Come non avvertire in questi richiami il sentore allettante quanto insidioso della nostalgia? Bisogna dire con disarmante linearità che il futuro ha radici antiche, certo!, ma non sta mai dietro alle spalle. E ricordare, semmai ce ne fosse bisogno, che quella scuola reca l’impronta elitaria (userei il termine “classista”, con buona pace di chi lo ritiene obsoleto) di un sistema pensato per la riproduzione sociale, non per l’emancipazione.

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Il posto giusto per qualche esercizio di libertà

di Raimondo Giunta

Non credo che le classi dirigenti della nostra società siano molto preoccupate se la scuola non rende migliori le nuove generazioni rispetto a come erano quando hanno incominciato a frequentarla. A loro interessa solo che escano dalla scuola come quelle che le hanno preceduto e che fuori sgomitano, competono, confliggono, si adattano e si fanno i fatti propri.
Unica preoccupazione delle classi dirigenti è che le nuove generazioni, dopo il lungo tirocinio scolastico, siano in grado di adeguarsi alle condizioni di vita e di lavoro che sono state predisposte.
Significa che amerebbero avere gente che non crea problemi, che si rende utile dove e quando e ogni volta che dovranno svolgere una qualche mansione.
Che siano collaborativi e anche autonomi, ma fin dove è stato stabilito che lo possano essere.

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La valutazione di fine anno fra norma e buonismo

di Pietro Calascibetta

Con una nota ministeriale recante per oggetto “Valutazione periodica e finale nelle classi intermedie primo e secondo ciclo di istruzione” il capo dipartimento del MIUR riepiloga tutta la normativa e le procedure di valutazione per gli scrutini.
Nulla da dire, solo tre osservazioni che mi sembrano importanti anche come riflessione generale sulla valutazione.

1) La nota sembra proprio una sorta di annuncio di ritorno alla normalità. Una circolare alla “nuora perché suocera intenda” . Un messaggio all’opinione pubblica per dire che l’epoca delle deroghe è terminata, si torna alla scuola vera. E’ un prezioso documento per le scuole, sicuramente da conservare come un “Bignami”, ma nulla di nuovo è scritto che il docente e il dirigente non sappia già. Mi domando quali sono state le deroghe sulla valutazione, se non quelle relative agli scrutini dello scorso anno.

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Ragionando sulla scuola dell’estate 2021

di Fiorella Paone
(redazione della Rivista Insegnare)

La crescita e l’emancipazione culturale di alunni e alunne è l’orizzonte di senso della scuola pubblica, secondo Costituzione. La scuola non può quindi in nessun caso essere intesa come un servizio a domanda individuale. La funzione di istruzione ed educazione è, infatti, un diritto che passa attraverso un progetto culturale che si apra al territorio e che metta al centro l’alunno/a e il conoscere insieme attraverso lo studio, la discussione, la problematizzazione, la sperimentazione e la ricerca.

Questo è possibile se si avviano e sostengono processi formali di lungo respiro. Insomma, per realizzare davvero la scuola di tutti e tutte e non trasformare le differenze in disuguaglianze sono necessari interventi strutturali e sistematici.
Il rapporto con il territorio ha senso ed è un’opportunità se inquadrato in un progetto curricolare e extracurricolare che individui specifici interlocutori, traguardi precisi e un sistema di azioni e interazioni di sostegno complementare e di co-partecipazione. Non tutto è scuola.

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Il calcolo vivente

di Giancarlo Cavinato

Si parla oggi di somministrare ‘compiti di realtà’  (=simulazioni) per costruire competenze.
Tutto bene se non si tratta di artifici non emersi da reali interessi della classe.

Freinet, per superare un apprendimento meccanico – quello che Guido Petter definiva ‘l’aritmetica del  droghiere’ il ‘far di conto’, il meccanismo delle operazioni),  proponeva la tecnica del calcolo vivente.
Esperienze reali, che mettono in gioco le strutture logiche del pensiero.

La fecondità del calcolo vivente non sta solo nella sua vitalità, nel fatto che il fanciullo non sente il problema come materia estranea ma come qualcosa che gli nasce dentro, ma dal fatto che dal problema immediato nasce spesso (nasce specialmente quando gli stimoli del maestro lo mettano in evidenza) un problema più generale, più formale.[1]

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